La Rivista

sta mio padre, facevamo poca fatica a trovarci. E come ti trovi oggi? L'attuale panorama musicale, con la tendenza a utilizzare la musica in maniera effimera, sostituendola rapidamente, non si allinea molto con la mia formazione musicale, essendo cresciuto negli anni Ottanta e Novanta con una predilezione per un certo genere di musica rock. Comunque, il mondo è in evoluzione. Bisogna avere la pazienza e rimanere nel flusso. Quando hai iniziato a fare musica professionalmente? Nel 2003 partendo dalla zona romagnola, girando poi per l’Italia. Oggi faccio 90 concerti all'anno. Quando ti sei catapultato nell'ambito musicale, hai riscontrato qualche problema o disagio? Quando prendi la strada del lavoro di tuo padre, la gente ti guarda con un certo pregiudizio e tu lo avverti. Posso pure capire: da una parte c'è il ricordo nostalgico verso una persona che non c'è più. Dall'altra, c'è il preconcetto che ti fa essere titubante e nei confronti della persona che ancora non conosci. Però, è anche vero che se vuoi fare questo lavoro, devi accettare di prendere il pacchetto completo. Secondo me è importante fare qualcosa e non pensarci troppo. Oggi c'è ancora posto per proporre il vero cantautorato? Credo che non esista il momento in cui non c'è spazio. Sicuramente, lo spazio è diverso rispetto a cinquant'anni fa. Quando però presenti una musica bella che piace, non sbagli. Se invece non metti sostanza in quello che fai, la sostanza non rimarrà. Perché hai deciso di trattare il tema della pandemia nella tua canzone Un metro da me? Ho sentito la necessità di creare un brano che, quando i miei figli saranno abbastanza grandi da chiedermi cosa sia accaduto in quegli anni, io glielo possa spiegare attraverso un mezzo universale come la musica. È ciò che mi riesce meglio. La durata di quei tre minuti e mezzo rende in qualche modo palpabile l’essenza di ciò che è accaduto a noi – tralasciando tutte le polemiche legate alla pandemia. Spesso non ci accorgiamo di quanto diamo per scontate le cose che sono presenti nella nostra quotidianità e di quanto siano in realtà cruciali. Ad esempio, i contatti fisici, che non sono paragonabili a quelli visivi tramite gli schermi. I contatti fisici sono determinanti per la nostra esistenza. A metà marzo ti sei recato in Svizzera per un concerto a Berna. È la terza volta che vieni dalle nostre parti. Come ti senti accolto dal pubblico italiano in Svizzera? Nelle volte che sono venuto mi sono sempre trovato bene. La chiamata di solito è arrivata dagli italosvizzeri, ma poi in sala ho trovato anche persone non italiane. È la conferma che la musica unisca tante cose e che essa possa essere bella in quanto musica. La Rivista · Marzo 2024 79

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