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La Rivista Elefante invisibile* Cosa dirà la gente…. di Vittoria Cesari Lusso Nella microcultura socio-familiare-regionale in cui sono cresciuta la preoccupazione per cosa dirà la gente era onnipresente. Nella mia famiglia generalmente se ne faceva portavoce mia madre. Lo dico giusto a titolo di informazione e non di critica, visto che ormai per me gli anni delle ribellioni adolescenziali sono ben lontani, e la vita mi ha regalato la possibilità di sperimentare personalmente oltre al ruolo di figlia anche quelli di moglie, madre e nonna. Niente come l’esperienza in prima persona fa evolvere il pensiero e i giudizi su chi si è speso per crescerti. Il cruccio su cosa dirà la gente veniva espresso nella nostra lingua familiare ormai praticamente scomparsa, il dialetto piemontese. Provo a scriverlo in tale idioma per dare un’idea di come suonava: cosa ch’a dis la gent. Ancora oggi il rievocare quel suono mi suscita una sensazione emotivamente più profonda del suo corrispondente nella lingua italiana. Mi richiama alla mente un’atavica atmosfera in cui si intrecciavano due dimensioni talvolta antitetiche. Da un lato, la disapprovazione sociale per l’esibizione di comportamenti eccentrici o trasgressivi generatori di brutte figure, secondo i costumi e l’idea di dignità dell’epoca. Dall’altro, l’incoraggiamento a rendersi comunque visibili cercando di fare bella figura. Ciò richiedeva la capacità di trovare un delicato equilibrio tra forme di sfacciata ostentazione che andavano evitate e, dall’altro, la spinta a fare bella figura valorizzando sottili differenze, quali un bel vestito acquistato nonostante i mezzi modesti e i piccoli successi che permettevano di emergere dal proprio gregge. Quell’attenzione alle possibili (prevedibili?) critiche esterne mi appare oggi in contrasto con un’idea spesso celebrata in questi nostri tempi “moderni”: decidi tu quello che va bene secondo i tuoi gusti, non ti curare delle litanie di critiche che piovono dall’esterno. Tanto – si dice – accontentare tutti è impossibile. Tale ventaglio di idee disparate rimanda all’antico e sconfinato dibattito sul ruolo degli altri nella formazione dell’immagine di chi siamo, e sulla dialettica tra libertà individuale e condizionamenti sociali. Mi avventuro con prudenza su tale terreno, cominciando da una storiella. Una vecchia storiella… È una storiella in cui mi sono imbattuta nell’ambito dei miei percorsi di formazione clinica, e che da allora conservavo – acriticamente confesso – nel mio archivio mentale come un efficace antidoto ( elefante invisibile?) contro gli effetti nefasti delle critiche altrui. Oggigiorno, tuttavia, mi sembra più una base da cui partire per ragionare sulla questione che una linea di condotta da adottare tout court. Siamo nella seconda metà del quindicesimo secolo. È autunno. Un contadino in groppa ad un asino tirato da una corda dal proprio figlio fa il suo ingresso nella città di Milano dalla porta Romana, ricavata lungo i bastioni spagnoli. Appena attraversate le mura un venditore di stoffe li vede e commenta con le dame che si interessano alla sua merce: Che vergogna! Guardate quell’uomo che sta seduto sull’asino come se fosse un re e lascia che il figlioletto si sfianchi dalla fatica! Vergognandosi, il contadino scende dall’animale e vi fa salire il figlio. Il terzetto si dirige allora verso la cattedrale. Dopo qualche minuto, incrociano un curato che alzando gli occhi al cielo esclama “Ecco un altro esempio della malsana pigrizia della gioventù di oggi. Un giovane sfaticato se ne sta seduto come un pascià e lascia il suo anziano padre arrancare nel fango. Che vergogna!”. Profondamente imbarazzato il * Una vecchia leggenda indiana narra di un elefante che pur muovendosi tra la folla con la sua imponente mole passava comunque inosservato. Come se fosse invisibile ... La Rivista · Giugno - Settembre 2025 52

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