La Rivista

Giangi Cretti Direttore gcretti@ccis.ch La Rivista Editoriale ostentatamente rinominati Ministeri della Guerra, al pari di citazioni classiche, addomesticate alla bisogna. Per cui un’affermazione attribuita a Vegezio, alto funzionario dell’impero romano, che pare non abbia mai servito nell’esercito, si vis Pacem para Bellum (Se vuoi la pace prepara la guerra) viaggia di bocca in bocca, atterrando al Pentagono, dove la guerra è (ri)presentata (non si sa con quale consapevole corrispondenza Futuristica) come unica igiene del mondo, mentre a centinaia di generali e ammiragli - caldamente invitati a dimagrire, tagliarsi barba e capelli, curare la propria immagine e soprattutto a smettere di essere gentili, perché “l'era della leadership politicamente corretta, ipersensibile e che non ferisce i sentimenti di nessuno finisce adesso” - è stato precisato che “da questo momento in poi, l'unica missione del Dipartimento della Guerra appena ripristinato è: combattere la guerra. Non perché vogliamo la guerra, ma perché vogliamo la pace". È così che accanto a quella Vegezio trova legittima giustificazione la citazione di Publio Cornelio Tacito, che oggi rievocata ci appare tristemente immaginifica: Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. Parafrasata in italiano suona: "dove fanno il deserto, lo chiamano pace". Improvvisamente (confusamente?) incalzanti. Quasi come se, dopo una lunga e svagata diserzione, il sentimento pubblico, che non è una somma di risentimenti privati, torni a farsi attore sociale, opinione pubblica. Che vuole farsi sentire, in grado di giudicare il potere e di provare ad indirizzarlo, influenzando la scala delle priorità generali, imponendo una nuova gerarchia. Con una chiara attribuzione di responsabilità, denunciando, da un lato, la violazione del diritto internazionale, lo sfregio alla sovranità, la riscrittura armata della storia; dall’altro il massacro dei civili, la fame come arma di guerra, l’esodo forzato. Sin qui un elenco di aggettivi, che potrebbe a lungo e a (dis)piacere continuare. In realtà, stati dell’anima, illustrati assemblando selvaggiamente riflessioni e considerazioni circolate pubblicamente, in cui, con sfumature più o meno marcate la maggior parte di noi potrebbe riconoscersi. Mi piacerebbe aggiungerne un altro. Fiduciosi. Confidando che - malgrado la sensazione che non solo mediaticamente stia primeggiando l’incivile che ripudia la civiltà, che considera le forme del rispetto e della tolleranza come un sintomo di decadenza - a 10 anni dal Patto di Locarno, da quello spirito che, celebrato come una pietra miliare diplomatica, pose fine ad anni di tensioni tra le principali potenze europee, si possa trarre una lezione – d’ammonimento e al contempo costruttiva - su come riportare la pace, non solo nel Continente. Privilegiando la volontà di risolvere i conflitti con il confronto, il dialogo – che sembra da tutti auspicato solamente quando non è reciproco - e la costruzione di un progetto comune, appianando le controversie insieme e non ricorrendo a soluzioni bilaterali, ma sostenendo un orientamento alla cooperazione. Uno spirito che riecheggia nelle parole del Capo dello stato Sergio Mattarella che, condannando comportamenti unilaterali e ricorsi alla forza militare, invita a: “fare il possibile per la pace nel mondo, rilanciare il multilateralismo, che significa pari dignità degli Stati”. Che afferma che ricordare è un dovere. È un seme di umanità che va sempre coltivato, perché contiene i valori fondativi della nostra comunità. Al contempo, è anche spinta all’impegno, affinché non accada mai più che le volontà di dominio cancellino i diritti umani, che le strategie di annientamento calpestino la vita e la sua irriducibile dignità. Ecco, pertanto, che ricordare è segno prezioso di una memoria che diventa percorso, che ricostruisce il bene comune, che sostituisce la riconciliazione all’odio, che assegna all’Europa un ruolo importante nel mondo. Ricordare significa, va da sé, non dimenticare, le parole sono di Papa Leone XIV, che “non c’è futuro basato sulla violenza, sull’esilio forzato, sulla vendetta. I popoli hanno bisogno di pace: chi li ama veramente, lavora per la pace”. Perché la guerra, anche questo vale la pena ricordare, è la morte in persona. Divora i bambini, sventra le città, trasforma le cose viventi in cenere, polvere e fango. Sarebbe utile parlarne con minore disinvoltura: il rischio è di assuefarci a questa vecchia porcheria quasi non fosse una scelta dei potenti e dei trafficanti d’armi, ma un evento naturale. Altalenanti: fra speranze di pace e incubi di guerra. Distratti: i conflitti distraggono dalle grandi sfide epocali, dalle vere attese delle popolazioni. Rassegnati: al riemergere del concetto di pre-guerra, che non ci indigna più. Da tre anni stiamo scivolando progressivamente da un’incognita a una minaccia, a una riduzione della nostra sicurezza, al restringimento del nostro orizzonte di libertà. Impotenti: mentre si consolidano comportamenti di carattere unilaterale, con ricorso alla forza militare. Fenomeni che credevamo ormai banditi dalla storia del mondo. Di fronte alla derisione del codice dei valori su cui poggia(va?) l’Occidente, con la democrazia che diventa un bersaglio registriamo, nostro malgrado, la fragilità dell’impianto politico-diplomatico-istituzionale a cui avevamo affidato la nostra sicurezza in cambio di una garanzia di pace nel progresso. Disorientati: di fronte al ridimensionamento progressivo del futuro, la nostra (in)capacità oltre una certa soglia rischia di diventare rinuncia, colpevole. Passiva accettazione, in un modo in fiamme, del decadimento di una civiltà del diritto e dei diritti, di una cultura delle istituzioni, della regola e della convivenza, che hanno fornito a tutti un canone di libertà. Uno stato d’animo che rischia di trasformarsi in sentimento politico, diffondendo la convinzione che il mondo sia ormai fuori controllo e la politica non riesca più a governarlo: figuriamoci la democrazia, a cui si chiede oggi di pagare per intero e da sola il disavanzo tra le promesse seminate in un secolo di progresso e le delusioni accumulate nelle emergenze degli ultimi anni. Basiti, (perché desueto, sorprende più di stupiti) e mentalmente disarmati. Disposti a digerire Ministeri della Difesa, intenzionalmente e

RkJQdWJsaXNoZXIy MjQ1NjI=