La Rivista

Giugno - Settembre 2025 n. 03 - Anno 116 Pag 89-96 Il Mondo in Camera

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Giangi Cretti Direttore gcretti@ccis.ch La Rivista Editoriale ostentatamente rinominati Ministeri della Guerra, al pari di citazioni classiche, addomesticate alla bisogna. Per cui un’affermazione attribuita a Vegezio, alto funzionario dell’impero romano, che pare non abbia mai servito nell’esercito, si vis Pacem para Bellum (Se vuoi la pace prepara la guerra) viaggia di bocca in bocca, atterrando al Pentagono, dove la guerra è (ri)presentata (non si sa con quale consapevole corrispondenza Futuristica) come unica igiene del mondo, mentre a centinaia di generali e ammiragli - caldamente invitati a dimagrire, tagliarsi barba e capelli, curare la propria immagine e soprattutto a smettere di essere gentili, perché “l'era della leadership politicamente corretta, ipersensibile e che non ferisce i sentimenti di nessuno finisce adesso” - è stato precisato che “da questo momento in poi, l'unica missione del Dipartimento della Guerra appena ripristinato è: combattere la guerra. Non perché vogliamo la guerra, ma perché vogliamo la pace". È così che accanto a quella Vegezio trova legittima giustificazione la citazione di Publio Cornelio Tacito, che oggi rievocata ci appare tristemente immaginifica: Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. Parafrasata in italiano suona: "dove fanno il deserto, lo chiamano pace". Improvvisamente (confusamente?) incalzanti. Quasi come se, dopo una lunga e svagata diserzione, il sentimento pubblico, che non è una somma di risentimenti privati, torni a farsi attore sociale, opinione pubblica. Che vuole farsi sentire, in grado di giudicare il potere e di provare ad indirizzarlo, influenzando la scala delle priorità generali, imponendo una nuova gerarchia. Con una chiara attribuzione di responsabilità, denunciando, da un lato, la violazione del diritto internazionale, lo sfregio alla sovranità, la riscrittura armata della storia; dall’altro il massacro dei civili, la fame come arma di guerra, l’esodo forzato. Sin qui un elenco di aggettivi, che potrebbe a lungo e a (dis)piacere continuare. In realtà, stati dell’anima, illustrati assemblando selvaggiamente riflessioni e considerazioni circolate pubblicamente, in cui, con sfumature più o meno marcate la maggior parte di noi potrebbe riconoscersi. Mi piacerebbe aggiungerne un altro. Fiduciosi. Confidando che - malgrado la sensazione che non solo mediaticamente stia primeggiando l’incivile che ripudia la civiltà, che considera le forme del rispetto e della tolleranza come un sintomo di decadenza - a 10 anni dal Patto di Locarno, da quello spirito che, celebrato come una pietra miliare diplomatica, pose fine ad anni di tensioni tra le principali potenze europee, si possa trarre una lezione – d’ammonimento e al contempo costruttiva - su come riportare la pace, non solo nel Continente. Privilegiando la volontà di risolvere i conflitti con il confronto, il dialogo – che sembra da tutti auspicato solamente quando non è reciproco - e la costruzione di un progetto comune, appianando le controversie insieme e non ricorrendo a soluzioni bilaterali, ma sostenendo un orientamento alla cooperazione. Uno spirito che riecheggia nelle parole del Capo dello stato Sergio Mattarella che, condannando comportamenti unilaterali e ricorsi alla forza militare, invita a: “fare il possibile per la pace nel mondo, rilanciare il multilateralismo, che significa pari dignità degli Stati”. Che afferma che ricordare è un dovere. È un seme di umanità che va sempre coltivato, perché contiene i valori fondativi della nostra comunità. Al contempo, è anche spinta all’impegno, affinché non accada mai più che le volontà di dominio cancellino i diritti umani, che le strategie di annientamento calpestino la vita e la sua irriducibile dignità. Ecco, pertanto, che ricordare è segno prezioso di una memoria che diventa percorso, che ricostruisce il bene comune, che sostituisce la riconciliazione all’odio, che assegna all’Europa un ruolo importante nel mondo. Ricordare significa, va da sé, non dimenticare, le parole sono di Papa Leone XIV, che “non c’è futuro basato sulla violenza, sull’esilio forzato, sulla vendetta. I popoli hanno bisogno di pace: chi li ama veramente, lavora per la pace”. Perché la guerra, anche questo vale la pena ricordare, è la morte in persona. Divora i bambini, sventra le città, trasforma le cose viventi in cenere, polvere e fango. Sarebbe utile parlarne con minore disinvoltura: il rischio è di assuefarci a questa vecchia porcheria quasi non fosse una scelta dei potenti e dei trafficanti d’armi, ma un evento naturale. Altalenanti: fra speranze di pace e incubi di guerra. Distratti: i conflitti distraggono dalle grandi sfide epocali, dalle vere attese delle popolazioni. Rassegnati: al riemergere del concetto di pre-guerra, che non ci indigna più. Da tre anni stiamo scivolando progressivamente da un’incognita a una minaccia, a una riduzione della nostra sicurezza, al restringimento del nostro orizzonte di libertà. Impotenti: mentre si consolidano comportamenti di carattere unilaterale, con ricorso alla forza militare. Fenomeni che credevamo ormai banditi dalla storia del mondo. Di fronte alla derisione del codice dei valori su cui poggia(va?) l’Occidente, con la democrazia che diventa un bersaglio registriamo, nostro malgrado, la fragilità dell’impianto politico-diplomatico-istituzionale a cui avevamo affidato la nostra sicurezza in cambio di una garanzia di pace nel progresso. Disorientati: di fronte al ridimensionamento progressivo del futuro, la nostra (in)capacità oltre una certa soglia rischia di diventare rinuncia, colpevole. Passiva accettazione, in un modo in fiamme, del decadimento di una civiltà del diritto e dei diritti, di una cultura delle istituzioni, della regola e della convivenza, che hanno fornito a tutti un canone di libertà. Uno stato d’animo che rischia di trasformarsi in sentimento politico, diffondendo la convinzione che il mondo sia ormai fuori controllo e la politica non riesca più a governarlo: figuriamoci la democrazia, a cui si chiede oggi di pagare per intero e da sola il disavanzo tra le promesse seminate in un secolo di progresso e le delusioni accumulate nelle emergenze degli ultimi anni. Basiti, (perché desueto, sorprende più di stupiti) e mentalmente disarmati. Disposti a digerire Ministeri della Difesa, intenzionalmente e

SOMMARIO 39 1 Editoriale 4 Italiche Automotive, militare e sicurezza i punti forti 7 Elvetiche I vantaggi del libero scambio e il peso della linea dei dazi 10 Europee Lo stato dell’Unione 15 Geopolitiche Piano Mattei: a che punto siamo nel 2025? 18 Novità in Gazzetta Ufficiale 21 Angolo Legale Immobili indesiderabili: considerazioni sulla rinuncia alla proprietà immobiliare in Italia 24 Presentato alla Camera il XXIV Rapporto annuale Inps 27 6 milioni e 382mila gli italiani residenti all’estero: +4% 33 Primo piano 1925-2025: 1° Centenario del Patto di Locarno In Copertina 1925 – 2025 I primi anni del patto di Locarno 46 Villa Faravelli e la Collezione Invernizzi – una perla dell’arte moderna a Imperia 39 L’incontro A colloquio con Nicola Pini sindaco di Locarno 100 anni dopo non si può prescindere dallo spirito di quel Patto 46 Il bel Paese Villa Faravelli e la Collezione Invernizzi – una perla dell’arte moderna a Imperia 52 Elefante invisibile Cosa dirà la gente…. 57 Il mercato libri in Italia vale 1,53 milioni di euro. La classifica dei più venduti nel 2024 59 In Svizzera la maggior parte della popolazione utilizza regolarmente più di una lingua 60 La lingua batte dove… Canta che ti passa 63 Il programma di Zurigo in Italiano 67 Visioni del Tempo Innovatori dimenticati: Alfred Lugrin 72 Tra sfiducia e disconnessione, come si informano gli italiani? 74 Tele-visioni La SRG SSR tra il desiderio di innovazione e le nuove logiche di mercato: il processo di trasformazione Enavant ccis.ch/la-rivista A colloquio con Nicola Pini sindaco di Locarno 100 anni dopo non si può prescindere dallo spirito di quel Patto La Rivista · Giugno - Settembre 2025 2

Gala Night 2025: Ginevra risplende tra i 5 cerchi olimpici 90 Editore - Camera di Commercio Italiana per la Svizzera Direttore - Giangi CRETTI Art Director - Marco DE STEFANO Collaboratori C. BIANCHI PORRO, V. CESARI LUSSO, M. CIPOLLONE, D. COSENTINO, L. D’ALESSANDRO, R. DE ROSA, N.FIGUNDIO, G.SORGE, M. FORMENTI, P. FUSO, T. GAUDIMONTE, T. GATANI, R. LETTIERI, F.MACRÌ, P.MEINERI, V. PANSA, N.TANZI, L.TERLIZZI Redazione Camera di Commercio Italiana per la Svizzera Dolderstrasse 62 - 8032 Zurigo Tel. +41(0)44 289 23 23 www.ccis.ch /la-rivista larivista@ccis.ch Pubblicità Marco DE STEFANO Dolderstrasse 62 - 8032 Zurigo Tel. 0041(0)44 2892319 E-mail: mdestefano@ccis.ch Abbonamento annuo Chf. 40.- Estero: 50 euro Gratuito per i soci CCIS Le opinioni espresse negli articoli non impegnano la CCIS. La riproduzione degli articoli è consentita con la citazione della fonte. Periodico iscritto all’USPI (Unione Stampa Periodica Italiana). Aderente alla FUSIE (Federazione Unitaria Stampa Italiana all’Estero) Appare 4 volte l’anno. Stampa e confezione Nastro & Nastro srl 21010 Germignaga (Va) - Italy Tel. +39 0332 531463 www.nastroenastro.it 76 Note Italiane 78 La felicità di condividere la musica 80 Vendemmia 2025: Italia leader mondiale con 47,4 milioni di ettolitri, ma il mercato preoccupa 82 La Dieta Rivista Test da testare 84 Lo stivale regionale dei Formaggi d’Italia: la Sardegna 89 Il mondo in Camera • Gala Night 2025: Ginevra risplende tra i 5 cerchi olimpici • Dolce Vita Night 2025. Eleganza gusto Made in Italy e networking • CCIS & FRIENDS - Members Get Together: Zurigo capitale del networking Made in Italy • The Geopolitical Factor in International Business • Manor e il Made in Italy: nuovo incoming per IGP e DPO Made in Italy firmato CCIS La Rivista · Giugno - Settembre 2025 3

L’ultima analisi di TEHA Club “Gli impatti della Trumponomics sulle filiere industriali” fotografa gli effetti della nuova politica commerciale statunitense sull’economia italiana ed europea. Automotive, militare e sicurezza i punti forti di Corrado Bianchi Porro superiore ai 5,9 miliardi registrati nel 2024. L’Italia figura tra i Paesi europei col maggiore avanzo commerciale verso gli Stati Uniti: 38,9 miliardi di euro nel 2024, una cifra più che raddoppiata nell’ultimo decennio. I settori trainanti – macchinari, farmaceutico, automotive, moda e agroalimentare – sono tra i più vulnerabili ai dazi. Nonostante questo, l’impatto complessivo resta gestibile: la perdita potenziale di export oscilla fra 9 e 6,7 miliardi di Euro, pari all’1,1% del totale. Una quota che, grazie alla forte diversificazione geografica può essere ridistribuita verso altri mercati. Durante ogni edizione del Forum a Cernobbio, vengono proposti dei sonQuesta ha già portato a un incremento senza precedenti dei dazi, colpendo settori chiave come automotive, farmaceutico, meccanica e agroalimentare. Per l’Italia, secondo Paese più colpito nell’UE dopo la Germania, l’impatto stimato ammonta a circa 9 miliardi di Euro: in uno scenario in cui le imprese siano disposte ad assorbire parzialmente l’incremento dei costi, la contrazione dell’export si ridurrebbe, pur restando significativa, a circa 6,7 miliardi di Euro, pari all’1,1% delle esportazioni italiane globali. Il costo per l’Europa è comunque elevatissimo: l’onere tariffario stimato è di 75,8 miliardi di Euro l’anno, un valore 13 volte La Rivista Italiche Il televoto al convegno di Cernobbio di settembre La Rivista · Giugno - Settembre 2025 4

daggi tra gli oltre 200 fra manager e imprenditori presenti. Sulle prospettive di fatturato per quest’anno, prevale un cauto ottimismo da parte dei grossi conglomerati (massicciamente presenti coi loro rappresentanti all’assise): il 32,4% prevede in effetti una crescita superiore al 10%, mentre solo una quota ridotta (2,7%) teme una flessione significativa (superiore al 10%). I dati riflettono dunque la resilienza del tessuto produttivo e la fiducia, pur prudente, nella capacità di affrontare le sfide economiche in corso a prescindere dagli esiti legali e amministrativi delle controversie commerciali che – come per la Svizzera, penalizzata con dazi fino al 39% - potrebbero innescarsi tra imprese. Bisogna rilevare che la politica protezionistica degli Stati Uniti che prevede una modesta crescita del PIL americano dell’1,6% quest’anno, dell’1,8% nel 2026 e dell’1,9% nel 2026 nelle previsioni della Fed di settembre, stimola tuttavia notevolissimi programmi di investimento da parte dei Paesi europei. La spesa pubblica in effetti non potrà rimanere ancorata a suddividere gli importi degli oneri correnti come nelle passate legislature, ma dovrà essere funzionale ai notevoli investimenti previsti per il ramo militare e la sicurezza, comprendendo in ciò pure l’applicazione tecnologica digitale e applicazioni con droni per missioni di allerta, nonché robot ed umanoidi nel campo industriale, compresa un’opera di modernizzazione delle infrastrutture portanti di ogni settore (autostrade, ferrovie, collegamenti telematici) per rimanere resilienti ad ogni possibile attacco interno ed esterno. Un cambiamento epocale Il passaggio dall’auto a benzina verso i nuovi modelli elettrici con auto elettriche e ibride ha già determinato un cambiamento epocale nel panorama industriale europeo. La Germania nell’automotive da quasi 6 milioni di veicoli prodotti nel 2012 è scesa a 4 milioni nel 2024. Per buona parte essa ha spostato lavorazioni terziarie in Cechia, Slovenia ed ex Paesi dell’est. Il vero disastro è per la Francia che è passata dai 3 milioni del 2006 al milione scarso l’anno passato. La Spagna dal milione e mezzo del 2000 è scesa a meno di mezzo milione. A livello globale, la produzione automobilistica europea è altamente automatizzata: sei paesi europei figurano tra i primi dieci nella classifica mondiale della densità di robot per l'industria automobilistica nel 2023: la Svizzera è al primo posto , con un rapporto di 3.876 robot ogni 10.000 addetti. La Slovenia è al terzo posto (1.762 unità), la Germania al sesto (1.492 unità), l'Austria all'ottavo (1.412 unità), la Finlandia al nono (1.288 unità) e i paesi del Benelux al decimo con 1.132 unità. "Il settore automobilistico europeo è il principale cliente per la robotica", ha affermato Takayuki Ito, Presidente della Federazione Internazionale di Robotica. "Le case automobilistiche rappresentano circa un terzo delle installazioni produttive annuali in Europa. In termini di attività di automazione, il numero complessivo di 23.000 installazioni di robot europei nel settore automobilistico ha superato le 19.200 unità installate in Nord America nel 2024". Pietra angolare dell'industria manifatturiera In parallelo, sono in continua crescita i robot industriali nel mondo. Quelli operativi presenti nel settore industriale sono oggi pari a 4,3 milioni. L'automazione è diventata la pietra angolare dell'industria Una debacle per l’automotive in Europa col passaggio all’elettrico e ibrido La Rivista · Giugno - Settembre 2025 5

manifatturiera e il suo potenziale è tutt'altro dall’essere compiuto. I settori che hanno già un elevato grado di automazione, così come quelli che finora ne hanno poca esperienza, stanno intensificando gli sforzi di automazione. Gli sviluppi tecnologici nel campo dell'Intelligenza Artificiale (IA) e dell'apprendimento automatico, della programmazione semplificata e robotica collaborativa, dei manipolatori mobili, dei gemelli digitali e robot umanoidi aumentano la gamma di compiti e processi che possono esser automatizzati. Il crescente numero di fornitori nell'automazione sta creando nuove dinamiche ed è facile prevedere una continua e costante crescita in questo settore nel futuro. L’Italia in questo comparto non è affatto messa male e, in Europa, non a caso è seconda dietro alla Germania, superando Francia e Spagna. La densità di applicazione è particolarmente elevata in settori come l’automotive (662 unità ogni 10.000 addetti), a fronte di una media, nel comparto manifatturiero, di 228. Nonostante la flessione degli investimenti nel 2024, il numero complessivo di robot industriali installati in Italia continua a crescere. A fine 2024 il parco robot ha superato le 106.000 unità. Questo incremento progressivo (dalle 76 mila del 2019) testimonia una diffusione sempre maggiore della robotica nelle imprese. Le produzioni di apparecchi elettrici, di macchinari e prodotti in metallo sono in Italia tradizionalmente più intensive nell’utilizzo di robot; a tali settori si sono aggiunti quelli metallurgico, alimentare e farmaceutico, nei quali il numero di robot installati, inizialmente contenuto, è poi cresciuto nell’ultimo decennio a ritmo sostenuto. I robot articolati si confermano i più richiesti dal mercato. L’analisi dei settori di sbocco (dati 2024) evidenzia che i prodotti in metallo si confermano come il principale settore di destinazione, assorbendo il 17% del parco installato. Al secondo posto, con una quota del 13,9%, si colloca il settore automotive. A pari merito, con una quota circa dell’11,7% ciascuno, troviamo i prodotti chimici, plastica e settore alimentare. Quello dei macchinari rappresenta il 9,1% del parco robot installato. Un ulteriore 15% è rappresentato da “altri” settori non specificati, a testimonianza della diffusione trasversale della robotica. L’analisi del parco robot cumulativo al 2024 conferma la preponderanza storica della manipolazione (69,2%), seguita da saldatura (14,8%) e assiemaggio (8,8%). Non solo semplici strumenti Il Giappone è stato pioniere nello sviluppo di robot umanoidi: Asimo di Honda è stato uno dei primi esempi, presentato nell'ottobre del 2000. I robot son considerati compagni piuttosto che semplici strumenti. Robot umanoidi come Pepper e Palro sono progettati come robot sociali e vengono utilizzati in contesti educativi, negozi o case di cura per anziani. Ciò riflette per altro le esigenze dell'invecchiamento della società giapponese. L'obiettivo è creare robot in grado di vivere in armonia con gli esseri umani e accettarli come parte della società. Aziende leader come Kawasaki stanno sviluppando robot umanoidi quali piattaforme di ricerca. La Cina è invece oggi di gran lunga il mercato più attivo e grande. Essa ha posto gli umanoidi al centro della propria strategia. Il governo vuole metter in mostra le proprie competenze e competitività globale in questo campo. C'è una forte enfasi sull'utilizzo degli umanoidi nei La Rivista Italiche 4,3 milioni di robot lavorano a pieno ritmo oggi nel mondo. Una domanda crescente di elettricità. La Rivista · Giugno - Settembre 2025 6

settori dei servizi, come quello ai clienti. L'impiego nel settore manifatturiero per automatizzare le linee di produzione e ridurre la dipendenza dal lavoro umano appare solo in secondo ordine. L'UE rimane comunque il secondo mercato mondiale (70.781 unità; +5%) nel 2022. La Germania è uno dei primi cinque paesi al mondo, con una quota di mercato del 36% all'interno dell'UE. L'Italia, 6° paese al mondo con il maggior numero di installazioni robotiche, segue con una quota di mercato del 16% all'interno dell'UE: le installazioni son cresciute dell'8% a 11.475 unità. Il terzo mercato dell'UE, la Francia, ha registrato una quota di mercato regionale del 10% e ha guadagnato così il 13%, installando 7.380 unità nel 2022. Le implicazioni etiche L'Europa d’altro canto pone una forte enfasi sulle implicazioni etiche, più che sugli umanoidi della robotica e dell'intelligenza artificiale. Essa si concentra in effetti in modo significativo sui robot collaborativi che lavorano a fianco degli esseri umani in contesti industriali. L'attenzione è rivolta al miglioramento della sicurezza, dell'efficienza e capacità umane, piuttosto che alla sostituzione dei lavoratori. L'attenzione è qui rivolta alla progettazione incentrata sull'uomo e all'impatto sociale e societario dei robot. Le aziende europee restano in genere più caute nell'uso di umanoidi per soddisfare le esigenze di automazione dei settori manifatturiero e servizi nel breve e medio termine. Negli Stati Uniti, aziende tecnologiche quali NVIDIA, Amazon e Tesla stanno sviluppando tecnologie avanzate di intelligenza artificiale e robotica. L'obiettivo è creare robot multiuso, basati sulla meccanica del movimento umano per la comprensibilità e l’efficacia. Specie nel campo medico e il supporto domestico da affiancare nella vita sociale quotidiana. Quanto ai prezzi, tra il 2019 e il 2024, il costo medio di un robot industriale europeo ha registrato oscillazioni, passando da un minimo di 40.100 dollari nel 2022 a un massimo di 54.240 dollari nel 2019. Nel 2024, il mercato della robotica industriale in Europa ha prodotto un costo medio di 46.650 dollari per robot, con un calo di quasi un settimo (14%) rispetto al 2019, ma si prevede che entro il 2029 il prezzo medio di un robot industriale in Europa salirà a circa 50.560 dollari (l'8,4% in più rispetto al costo tipico mediano del 2024). Per il futuro, le applicazioni più interessanti saranno nel campo medico col 27,03% , i servizi domestici (19,76%), quelli industriali (10,28%) e l’intrattenimento (9,29%). L’ampliamento delle applicazioni dell’intelligenza artificiale alla robotica industriale prefigura naturalmente una sempre maggiore diffusione dell’automazione che potrebbe in parte compensare la prevista riduzione della quota di popolazione indigena attiva, anche se gli effetti complessivi sulla domanda di lavoro sono di difficile valutazione, eccetto ovviamente il personale specialistico addetto al ramo! I settori che - tra il 1996 e il 2021 - hanno incrementato di più l’automazione hanno d’altra parte registrato una crescita del numero di occupati e della produttività, seppur nel breve periodo l’automazione può avere effetto di sostituzione sull’occupazione. Nell’impiego di robot industriali, l’Italia occupa una seconda posizione di prestigio in Europa dietro la Germania, mentre la Cina spadroneggia in lungo e in largo. La Rivista · Giugno - Settembre 2025 7

L’apertura economica ha consentito progressi a livello mondiale, la Svizzera l’ha praticata ed è tra i Paesi che più ne hanno beneficiato I vantaggi del libero scambio e il peso della linea dei dazi di Lino Terlizzi soprattutto vantaggi. Lo sviluppo del libero scambio non ha certamente eliminato tutte le barriere, ma le ha almeno ridotte in modo rilevante, soprattutto negli ultimi decenni. Se partiamo dal 1990, per non andare in questa sede troppo indietro nel tempo, possiamo vedere come il contenimento di dazi e barriere abbia contribuito a un aumento importante del Prodotto interno lordo. Le stime prevalenti indicano che il PIL mondiale nominale, misurato in dollari USA, era di circa 24 mila miliardi nel 1990, mentre nel 2024 è stato di circa 111 mila miliardi. La progressione è stata favorita da diversi fattori – tra gli altri, i nuovi prodotti e l’innovazione tecnologica – ma è difficile pensare che l’aumento del libero scambio, con minori barriere economiche, non abbia giocato un ruolo di primo piano. Si può obiettare che ciò che conta non è solo l’ammontare complessivo del PIL, bisogna vedere anche il PIL pro capite, cioè la media per persona. Dividendo la cifra totale del PIL per la cifra della popolazione mondiale, si arriva alla risposta. Secondo la Banca mondiale, nel 1990 il PIL pro capite era di 4.322 dollari, nel 2024 di 13.673 dollari. In teoria si potrebbe ottenere un aumento di questo valore anche rimanendo fermi o quasi come PIL, se ci fosse meno popolazione. Ma non è così. La popolazione Non sappiamo quanto a lungo resteranno i dazi americani e a che livelli. Nella migliore delle ipotesi ci sarà una retromarcia degli Stati Uniti, nella peggiore si rimarrà nel quadro esistente a settembre 2025, mentre scriviamo. Sarebbe auspicabile uno stop a questa fiammata di protezionismo, ma se così non fosse si potrebbe andare avanti per almeno tre anni abbondanti, cioè per la residua durata del mandato del presidente USA Trump, che ha voluto l’incremento dei dazi. Quanto accadrà in seguito, dopo il 2028, dipenderà dagli assetti politici che ci saranno negli Stati Uniti e a livello mondiale. Sul piano economico è facile prevedere che, con i dazi ancora a livelli alti, i commerci e la crescita mondiali avranno un ulteriore freno, che si aggiungerà a quello delle tensioni geopolitiche e dei conflitti bellici. Sino a che punto l’economia globale frenerà, dipenderà appunto anche dallo spessore e dalla durata dei dazi. Il Prodotto interno lordo Considerando che il protezionismo è tornato a occupare una parte ampia della scena, vale comunque la pena di ricordare quanto al contrario lo sviluppo del libero scambio – e dunque anche la maggior globalizzazione economica - abbia portato La Rivista Elvetiche La Rivista · Giugno - Settembre 2025 8

globale era di circa 5,3 miliardi nel 1990 e di circa 8,1 miliardi nel 2024. Il risultato è stato ottenuto in coincidenza con un marcato aumento della popolazione, quindi l’incremento del PIL pro capite va considerato come un progresso su tutta la linea. Se guardiamo alla Svizzera, ebbene ha tratto molti vantaggi dallo sviluppo del libero scambio, dagli anni Novanta ad oggi. L’economia elvetica è più aperta di molte altre ed ha quindi usufruito largamente dell’aumento degli scambi economici globali. Il Prodotto interno lordo svizzero, al di là delle oscillazioni nei singoli anni, ha avuto nell’insieme un buon passo. Questo ha permesso al PIL pro capite elvetico di essere a livelli elevati, anche in presenza dell’incremento della popolazione. Per la Banca mondiale in Svizzera il PIL nominale pro capite nel 1990 era pari a 39.574 dollari USA; nel 2024 era pari a 103.669 dollari, cifra che ha consentito alla Confederazione di rimanere nel gruppo di testa a livello mondiale. Occorre ricordare che nel 2024 gli USA erano a 85.809, la Germania a 55.800, la Francia a 46.150, l’Italia a 40.226. Distanze minori La crescita economica mondiale è stata di buon livello, al di là delle oscillazioni annue, nel complesso degli oltre tre decenni, e questo ha permesso gli incrementi del PIL pro capite. Le tensioni geopolitiche, i conflitti bellici, la pandemia, alcune misure protezionistiche esistenti già nel primo mandato di Trump, hanno certamente determinato alcuni rallentamenti della crescita nell’ultimo decennio. Tuttavia, diminuzioni marcate del PIL pro capite mondiale nei 35 anni considerati ci sono state solo tre volte: nel 2009, nel 2015, nel 2020. C’è un’altra obiezione spesso sollevata, quella sul fatto che la media nasconderebbe in realtà un forte incremento delle diseguaglianze, con un moltiplicarsi di vantaggi che toccherebbe in tutto o in gran parte la quota alta dei redditi. Anche su questo versante occorre chiarire. Guardando al mondo nel suo insieme, i Paesi emergenti hanno ridotto la distanza dai Paesi avanzati, si pensi a Cina, Brasile, India e a molti altri; da questo punto di vista, il mondo è oggi meno diseguale, non più diseguale. Guardando ai singoli Paesi, la situazione è mista, non tutta scura: alcuni hanno ridotto le diseguaglianze, altri no; il libero scambio di per sé facilita la diffusione del benessere, poi devono essere i vari Stati a fare le giuste scelte politiche ed economiche sul piano interno. Bisogna comunque anche aggiungere che la povertà estrema, che riguarda la parte di popolazione mondiale con entrate quotidiane inferiori ai 2,15 dollari USA, secondo la Banca mondiale è scesa in modo molto marcato, dal circa 38% del 1990 al circa 9% del 2024; questo vuol dire che dai circa 2 miliardi di persone del 1990 si è scesi ai circa 700 milioni del 2024. Occorre ancora migliorare, certo, ma è sbagliato negare i progressi registrati. Tornando alla Svizzera, il Paese, contrariamente a quanto si potrebbe essere indotti a pensare, è rimasto in un’area di diseguaglianze interne che non è tra le più alte a livello internazionale. Secondo l’indice Gini sulle diseguaglianze (1= diseguaglianza massima), fornito da Statista, nel 2024 gli Stati Uniti erano a 0,42, l’Italia a 0,36, la Svizzera a 0,33, la Germania e la Francia a 0,32. Considerando che nella classifica globale dell’indice Gini si va da massimi attorno a 0,60 a minimi attorno a 0,20, si può osservare come la ConfeNon sappiamo quanto a lungo resteranno i dazi americani e a che livelli. Sappiamo che si potrebbe andare avanti per almeno tre anni abbondanti, cioè per la residua durata del mandato del presidente Trump La Rivista · Giugno - Settembre 2025 9

derazione sia in una posizione intermedia, con un grado diseguaglianza non distante da quelli dei maggiori vicini europei e ancora decisamente inferiore a quello degli Stati Uniti. Prezzi e salari Un altro capitolo di rilievo è che la globalizzazione economica basata sull’ampliamento del libero scambio ha consentito di contenere non poco l’inflazione. Scambi più ampi, con minori barriere, permettono di limitare meglio il rincaro, contenendo i prezzi di un gran numero di beni e servizi. Ci sono state anche impennate in alcuni momenti - l’ultima è stata quella del 2022-2023, con l’effetto congiunto del post pandemia e della guerra in Ucraina – ma la tendenza dell’inflazione è stata chiaramente al ribasso. Anche qui occorre affrontare un’obiezione ricorrente, quella di una contrazione dei salari reali che sarebbe stata causata dalla globalizzazione economica. Bisogna dunque ricordare che il salario reale è dato dal salario nominale corretto appunto dall’inflazione, quindi, quando quest’ultima è bassa si può difendere meglio il salario reale. È chiaro che anche il salario nominale deve essere a livelli adeguati, ma l’effetto inflazione bassa è importante. Nel suo rapporto 2024-2025 sulle retribuzioni, l’International Labour Organization (ILO) indica per i salari reali nel mondo un trend di tenuta. Dai dati, che vanno dal 2006 al 2024, emerge che nei 19 anni considerati solo una volta, nel 2022, c’è stata una contrazione annuale (-0,9%). Nell’arco degli altri anni l’aumento maggiore è stato il 3,1% del 2007 e il minore l’1,2% del 2008. Nel 2023 l’aumento è stato dell’1,8% e nel 2024 del 2,7% (quest’ultimo sulla base dei primi due trimestri). La stessa ILO indica anche le variazioni per il solo gruppo G20, disaggregando poi quest’area in economie avanzate ed emergenti. Dal 2006 al 2024 per il G20 nel suo complesso c’è stata pure una sola contrazione annua. Per le economie avanzate del gruppo le contrazioni sono state non più di 4 in 19 anni, per le economie emergenti, che puntano anche qui a ridurre la distanza, secondo l’ILO non ci sono state discese annue dei salari reali in questi quasi due decenni. La disoccupazione Anche il versante della disoccupazione è naturalmente rilevante, è interessante osservare quale sia stato l’andamento nel mondo negli ultimi decenni. Tenendo presenti i grandi sviluppi nell’utilizzo di tecnologie e, nel contempo, il marcato incremento della popolazione mondiale, si sarebbe portati naturalmente a pensare che il tasso di senzalavoro sia aumentato. Mettendo insieme tanta tecnologia, più facilmente diffusa proprio attraverso lo sviluppo del libero scambio, e tanta popolazione in più, alla fine sulla carta la percentuale dei disoccupati dovrebbe/ potrebbe essere più alta. Ma le cifre dicono altro. I dati della Banca mondiale indicano che nel 1991 la media di disoccupazione nel mondo era del 5,1%, mentre nel 2024 era del 4,9%. Non è una forte differenza in termini percentuali, ma dietro ci sono grandi numeri in termini assoluti, che giocano a favore del quadro creato con decenni di globalizzazione economica. Le cifre sono significative se si tiene conto appunto di tecnologie e popolazione, elementi che determinano molto la situazione. Ci sono stati e ancora ci sono, indubbiamente, cambiamenti profondi per i mercati del lavoro, spesso non facili da gestire. Non tutto è roseo, c’è ancora da fare, ma è sbagliato negare che anche su questo versante ci sia stata sin qui una sostanziale tenuta. Passato e presente L’offensiva dei dazi attuata dal presidente USA Trump rischia di intaccare seriamente questo quadro complessivo, che non rappresenta la perfezione ma che ha avuto e ha molti aspetti positivi. È auspicabile Lo sviluppo del libero scambio non ha certamente eliminato tutte le barriere, ma le ha almeno ridotte in modo rilevante, soprattutto negli ultimi decenni La Rivista Elvetiche La Rivista · Giugno - Settembre 2025 10

che questo nuovo protezionismo targato Trump non vada troppo in là, che le cose quindi non vadano troppo male, che il rallentamento economico già esistente non si trasformi in una recessione internazionale. Ed è anche auspicabile che siano gli Stati Uniti stessi a rendersi conto del loro grande errore, a un certo stadio della vicenda. Anche l’esperienza di tempi passati dovrebbe servire. Negli anni Trenta gli USA introdussero lo Smoot-Hawley Tariff Act, aumentando parecchio i loro dazi, con l’obiettivo di proteggere le imprese statunitensi dalla concorrenza estera. Gli altri Paesi risposero con controdazi e il risultato fu che tra il 1929 e il 1934 i commerci internazionali scesero di oltre il 60%. Le cose iniziarono a migliorare solo quando si cominciò a smontare una parte del protezionismo. L’economia mondiale attuale è più articolata, dunque non è detto che il danno sia grande come quello degli anni Trenta. È oggettivo, comunque, che con i dazi anche oggi ci siano difficoltà in più. In attesa di tempi migliori, l’unica è non smettere di difendere l’apertura economica, anche facendo o rafforzando accordi di libero scambio con tutti i Paesi che ci stanno, contrastando la nuova onda di protezionismo. La povertà estrema, che riguarda la parte di popolazione mondiale con entrate quotidiane inferiori ai 2,15 dollari USA, secondo la Banca mondiale è scesa in modo molto marcato, dal circa 38% del 1990 al circa 9% del 2024 Nel 1930 il presidente americano Herbert Hoover (nella foto) firmò lo Smoot-Hawley Tariff Act, aumentando parecchio i dazi, con l’obiettivo di proteggere le imprese statunitensi dalla concorrenza estera. Gli altri Paesi risposero con controdazi e il risultato fu che tra il 1929 e il 1934 i commerci internazionali scesero di oltre il 60%. La Rivista · Giugno - Settembre 2025 11

Lo stato dell’Unione di Viviana Pansa za – ha aggiunto la Presidente della Commissione. Obiettivi precisi per il 2030 Dopo aver ribadito l’appoggio all’Ucraina e ricordato l’ennesimo pacchetto di sanzioni nei confronti della Russia – il diciannovesimo, - Von der Leyen ha annunciato la presentazione al Consiglio europeo di “una tabella di marcia chiara, per avviare nuovi progetti comuni in materia di difesa e fissare obiettivi precisi per il 2030”. Ha quindi formulato un appello all’unità, reso ancora più urgente dalla consapevolezza che il nostro continente è “impegnato in una lotta” per la pace, la libertà e la propria indipendenza, per la difesa dei propri valori e per la democrazia, “per la capacità di scrivere da soli il nostro destino” e, dunque, per il proprio futuro. La “missione” di questa nuova Europa sarà quindi per Von der Leyen quella di “riuscire a tutelare la difesa e la sicurezza, avere il controllo delle tecnologie e delle energie che alimenteranno le nostre economie, decidere in che tipo di società e democrazia vogliamo vivere, aprirci al mondo e scegliere partenariati con alleati, vecchi e nuovi”. Sul fronte internazionale, non è mancato il richiamo a quanto sta accadendo a Gaza e l’annuncio della sospensione del sostegno bilaterale a Israele, perché cessi gli attacchi nella Striscia e si ritorni a perseguiNel suo discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato al Parlamento europeo di Strasburgo il 10 settembre scorso, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen si è soffermata ancora una volta sulla necessità di potenziare le capacità di difesa dell’Europa, di fronte al profilarsi di “uno scontro per un nuovo ordine mondiale basato sul potere” e “in un mondo in cui molte grandi potenze hanno nei suoi confronti un atteggiamento ambiguo o apertamente ostile”. Difesa che ha declinato anche come salvaguardia dell’integrità territoriale, ribadendo che “l’Europa difenderà ogni centimetro quadrato del suo territorio”, all’indomani anche dalla violazione dello spazio aereo polacco da parte di droni russi. A questo proposito, la Presidente ha sottolineato l’importanza del versante orientale, che “protegge tutto il continente”, e ha annunciato investimenti per una sorveglianza di quest’area come base per un sistema di difesa credibile. Un sistema che, a suo dire, dovrà diventare “una capacità europea sviluppata, utilizzata e mantenuta congiuntamente, in grado di reagire in tempo reale e che non dia adito ad alcun dubbio sulle nostre intenzioni”, perché ora “l’Europa deve essere pronta ad assumersi la responsabilità della propria sicurezLa Rivista Europee La Rivista · Giugno - Settembre 2025 12

re “la fattibilità della soluzione dei due Stati”. Misure, quelle di Von der Leyen, che sono state approvate di seguito dall’Europarlamento con una mozione in cui si invitano anche i Paesi europei a riconoscere lo Stato della Palestina – i sì sono stati 305, 151 i voti contrari e 122 gli astenuti. Prudenza sul fronte economico La Presidente della Commissione è apparsa più prudente invece sul fronte economico. Ha ribadito la necessità di promuovere l’integrazione del mercato unico – fattore essenziale anche per la difesa europea, - di proseguire con gli investimenti in tecnologie digitali e pulite, di semplificare la burocrazia e agevolare l’attività imprenditoriale. Il richiamo piuttosto generico al patto per l’industria pulita sembra dovuto alla consapevolezza della debolezza della maggioranza che sostiene l’attuale Commissione, se non all’impegno recentemente assunto di acquisto di idrocarburi dagli Stati Uniti, impegno che appare contraddittorio rispetto allo sviluppo interno di fonti energetiche alternative professato da tempo da Von der Leyen. E i temi del diritto sociale alla casa e della lotta alla povertà sono stati certamente citati guardando ad un possibile appoggio allargato a parte dei partiti di sinistra presenti all’Europarlamento. Anche sui dazi, e sull’accordo raggiunto con gli Stati Uniti in proposito, Von der Leyen non ha potuto far altro che ribadire quanto già affermato al termine dell’incontro con il presidente americano Donald Trump in Scozia a fine luglio, consapevole dell’insoddisfazione suscitata negli Stati membri per l’aumento della loro quota su gran parte delle merci al 15% (anche se il 30% stabilito in mancanza di un accordo sarebbe stato più svantaggioso). “Senza ombra di dubbio, ci siamo assicurati l’accordo migliore. Abbiamo conferito un relativo vantaggio alle nostre imprese, perché alcuni dei nostri concorrenti diretti sono soggetti a dazi molto più elevati da parte degli Stati Uniti – ha detto Von der Leyen, aggiungendo che “l’accordo garantisce una stabilità cruciale nelle nostre relazioni con gli Stati Uniti in un periodo di grave insicurezza globale”. Ricordando poi che “l’80% dei nostri scambi commerciali avviene con paesi diversi dagli Stati Uniti”, la Presidente della Commissione ha inviato gli Stati europei a “sfruttare nuove opportunità”, incrementando la diversificazione e i partenariati, come quelli con il Messico, il Mercosur o con l’India, con cui sono in corso negoziati per concludere un accordo entro la fine dell’anno. Riformare i meccanismi decisionali L’ultimo punto richiamato dalla Presidente è stata la necessità di una riforma dei meccanismi decisionali europei, passando alla maggioranza qualificata in alcuni ambiti, come la politica estera. Per Von der Leyen “è arrivato il momento di liberarci delle catene dell’unanimità. Dobbiamo fare in modo che la nostra Unione agisca più rapidamente e sia in grado di rispondere alle attese delle cittadine e dei cittadini europei – ha concluso. Un appello alla riorganizzazione politica dell’Unione lo aveva formulato alcune settimane prima anche Mario Draghi, intervenendo al meeting annuale del movimento cattolico di Comunione e Liberazione a Rimini. “I modelli di organizzazione politica, specialmente quelli sopra-statuali, emergono in parte anche per risolvere i problemi del loro tempo. Quando questi cambiano tanto da rendere fragile e vulnerabile l’organizzazione preesistente, questa deve cambiare – aveva detto Draghi, sottolineando Nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen si è soffermata ancora una volta sulla necessità di potenziare le capacità di difesa dell’Europa La Rivista · Giugno - Settembre 2025 13

la svolta avvenuta in quest’ultimo anno, ossia la fine dell’illusione che la forza economica porti con sé necessariamente anche un’equivalente forza geopolitica. Non è stato così, infatti, con l’accordo sui dazi con gli Stati Uniti, o con il sostegno finanziario alla guerra in Ucraina, visto il ruolo marginale che l’Europa sembra aver assunto sino ad oggi nei negoziati per la pace. Per Draghi la sfida che deve guidare la riflessione politica sul futuro dell’Unione è saper agire nei “tempi ordinari” con la stessa decisione con cui sono state affrontate e gestite le emergenze del nostro recente passato, ma – avverte – “tornare alla sovranità nazionale non farebbe altro che esporci ancor di più al volere delle grandi potenze”. L’adattamento ad un mondo che – ricorda Draghi – “non ci guarda con simpatia, e non aspetta la lunghezza dei nostri riti comunitari per imporci la sua forza”, deve avvenire potenziando l’integrazione dei mercati e agendo insieme soprattutto nel settore pubblico. “I governi devono definire su quali settori impostare la politica industriale; rimuovere le barriere non necessarie e rivedere la struttura dei permessi nel campo dell'energia; devono mettersi d'accordo su come finanziare i giganteschi investimenti necessari in futuro e disegnare una politica commerciale adatta a un mondo che sta abbandonando le regole multilaterali; in breve, i governi degli Stati UE devono ritrovare unità di azione, e non quando le circostanze saranno divenute insostenibili, ma ora – conclude Draghi, - quando abbiamo ancora il potere di disegnare il nostro futuro”. Insostenibile irrilevanza Una posizione condivisa nei giorni successivi anche dall’ex governatore della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet che, in un’intervista al quotidiano italiano La Repubblica, ha sottolineato come questa “irrilevanza” dell’Europa, specie sul fronte internazionale, non sia più sostenibile. “Abbiamo un aggressivo autocrate russo e un presidente americano che vuole abbandonarci al nostro destino, eppure credo che proprio dalla congiunzione di queste due forze negative nascerà la determinazione dell’Europa nel realizzare gradualmente il suo progetto a lungo termine, che deve essere quello di una vera federazione politica – afferma Trichet, secondo cui “l’unico modo per noi europei di reagire è promuovere l’attuazione del progetto federale, e non possiamo essere pessimisti su quest’obiettivo". Si tratta tuttavia di un obiettivo complesso e di difficile realizzazione, ancor più se si pensa che la Francia, il Paese dell’Unione che aveva potuto contare sino ad oggi sul leader più europeista, il presidente Emmanuel Macron, sta attraversando una crisi politica ed economica che sembra di difficile soluzione. E anche dalla Germania, alle prese con una grave crisi economica e in recessione per il secondo anno consecutivo, difficilmente ci si potrà aspettare uno sguardo di più ampio respiro sul futuro del continente. Le recenti elezioni comunali nel Nord Reno-Vestfalia, il Land più popoloso della Germania, anche se registrano la tenuta della Cdu, il partito del cancelliere Friedrich Merz, confermano infatti l’ascesa dell’ultradestra di Alternative für Deutschland, che ha triplicato i propri voti ed è uno tra i più euroscettici del panorama politico attuale. Un appello alla riorganizzazione politica dell’Unione lo aveva formulato alcune settimane prima anche Mario Draghi La Rivista Europee La Rivista · Giugno - Settembre 2025 14

La Rivista Geopolitiche Piano Mattei: a che punto siamo nel 2025? di Felisa Ferroglio Nel 2024, l’Italia ha posto l’Africa al centro della propria agenda di politica estera con il lancio del Piano Mattei, annunciato dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni al Vertice Italia-Africa di Roma. Ideato per promuovere lo sviluppo sostenibile, la crescita economica e la creazione di posti di lavoro con e nei Paesi africani, l’iniziativa mira a ridefinire le relazioni euro-africane attorno al principio di partenariato paritario. Tuttavia, trasformare questa ambizione in pratica richiede più delle sole promesse e si fonda su diplomazia, responsabilità e trasparenza. Approccio coordinato su settori prioritari Un anno dopo, il Piano sembra acquisire slancio. Al Vertice sui Sistemi Alimentari delle Nazioni Unite del luglio 2025, Meloni ha incontrato il Primo Ministro etiope Abiy Ahmed per esaminare i progetti in corso nell’ambito del Piano. Nel frattempo, la portata dell’iniziativa si è ampliata rapidamente, includendo quattordici Paesi africani rispetto ai nove del lancio. Essa è ora integrata in quadri di sviluppo più ampi, come il Global Gateway dell’UE, e ha attirato il sostegno di importanti attori multilaterali, tra cui la Banca Mondiale. Questo processo di internazionalizzazione ed europeizzazione colloca il Piano Mattei in un contesto finanziariamente solido, rafforzando al contempo il potenziale ruolo dell’Italia come cerniera tra Europa e Africa. L’architettura dichiarata del Piano Mattei si concentra su alcuni settori prioritari e su un approccio coordinato e limitato nel tempo. Nella sua prima formulazione, il governo italiano ha raggruppato le attività in “pilastri” tematici — istruzione e formazione professionale, sanità, agricoltura, acqua ed energia — con infrastrutture e cooperazione digitale sempre più valorizzate come filoni complementari. È stato istituito un comitato di coordinamento governativo per gestire i progetti tra ministeri e con partner pubblici e privati; secondo i resoconti pubblici, questo comitato riferisce direttamente alla Presidenza del Consiglio e inizialmente è stato presieduto dall’ambasciatore Fabrizio Saggio. Il Piano è stato concepito come un programma quadriennale che unisce i progetti di cooperazione già gestiti da istituzioni e imprese italiane in un unico quadro strategico con un marchio riconoscibile. Il finanziamento e le partnership costituiscono una variabile chiave per l’impatto potenziale del Piano. Le autorità italiane hanno cercato di combinare fondi pubblici e privati, cofinanziamenti bilaterali e strumenti europei: Roma ha promosso attivamente il Piano Mattei come complementare al Global Gateway dell’UE e, nel 2025, ha raggiunto un accordo di cofinanziamento con la Banca Mondiale per sfruttare risorse agevolate e dell’IDA (International Development Association) per progetti in linea con gli obiettivi del Piano (accesso all’energia, creazione di posti di lavoro e resilienza climatica). Secondo i media, il governo ha indicato una cifra nell’ordine di diversi miliardi di euro legati a iniziative marchiate Mattei (con stime che parlano di circa 5,5 miliardi di euro in iniziative e impegni correlati), anche se gran parte di questo totale sembra comprendere investimenti già programmati, impegni privati e progetti in attesa già previsti piuttosto che un fondo centralizzato realmente nuovo. L’importanza (e i rischi) del coinvolgimento del settore privato Sul terreno, il portafoglio iniziale del Piano Mattei ha privilegiato progetti strategici per gli obiettivi italiani di sicurezza energetica e alimentare, oltre che politicamente visibili. Tra gli esempi citati dai media e nei briefing governativi vi sono investimenti nell’energia — sia nei combustibili fossili dove politicamente sostenibili, sia, sempre più, in energie rinnovabili e infrastrutture di rete —, partenariati nelle filiere agroalimentari con investimenti agro-industriali, centri di La Rivista · Giugno - Settembre 2025 15

formazione professionale e iniziative di connettività digitale. Tra i progetti di punta discussi pubblicamente figurano corridoi infrastrutturali e collegamenti di trasporto (la stampa ha citato, ad esempio, il corridoio di Lobito come uno dei più rilevanti nei dibattiti Italia-Africa) e programmi multinazionali per rafforzare i sistemi alimentari e la produttività agricola. A livello operativo, grandi aziende italiane — tra cui Leonardo e il gruppo agroindustriale BF — hanno firmato accordi per partecipare a progetti agricoli e tecnologici etichettati Mattei, con BF che ha annunciato investimenti di diverse centinaia di milioni di euro nell’arco di alcuni anni per sostenere le rese agricole e misure di adattamento climatico. Il coinvolgimento del settore privato è stato posto deliberatamente al centro. La narrativa italiana presenta il Piano Mattei come un modello di “partenariato” in cui le imprese italiane apportano tecnologia, finanza e capacità manageriali, mentre i Paesi ospitanti definiscono le priorità. Questa enfasi pubblico–privato ha due conseguenze: può accelerare l’attuazione laddove le imprese abbiano vantaggi comparativi (ad esempio Leonardo nell’agricoltura di precisione e nelle tecnologie di monitoraggio), ma solleva anche rischi legati al bilanciamento tra obiettivi commerciali e di sviluppo. Alcuni osservatori hanno sottolineato la possibilità che certi accordi marchiati Mattei siano in realtà una semplice rietichettatura di impegni commerciali bilaterali già esistenti, senza apportare un valore aggiunto misurabile in termini di sviluppo. Lo sforzo del governo di mobilitare capitale privato — e di presentare il Piano come un motore di creazione di occupazione locale — è credibile nelle linee generali, ma richiede garanzie chiare, regole di contenuto locale e monitoraggio indipendente per assicurare che i benefici ricadano effettivamente sulle comunità ospitanti. Lacune di governance e trasparenza Diversi analisti politici e partner europei hanno evidenziato lacune di governance e trasparenza che minano la credibilità del Piano. Le prime critiche sottolineavano come, al momento del lancio, il Piano Mattei fosse più un marchio-ombrello che una strategia operativa dettagliata: i critici hanno rilevato la relativa assenza di una piattaforma pubblica e consultabile che elencasse progetti, bilanci, tempistiche e risultati misurabili — informazioni normalmente attese da donatori, governi partner e società civile per iniziative multilaterali di questa portata. La mancanza di un co-design africano nella fase iniziale di elaborazione dei progetti ha suscitato critiche esplicite anche da parte della leadership dell’Unione Africana e di analisti, che hanno avvertito del rischio che un’impostazione dall’alto comprometta l’impegno dichiarato al partenariato paritario. Alcune analisi di think-tank hanno descritto parti del Piano come una semplice ricollocazione di iniziative esistenti, senza nuovi finanziamenti o una reale coordinazione, sollecitando un monitoraggio più rigoroso e quadri di valutazione indipendenti. La scelta dei Paesi partner e l’inquadramento geopolitico sono significativi. Inizialmente nove, entro il 2025 l’elenco dei Paesi è salito a quattordici: i nuovi ingressi segnalati sono Angola, Ghana, Mauritania, Tanzania e Senegal, accanto a partner già presenti come Algeria, Egitto, Marocco, Tunisia, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya e Mozambico. La selezione riflette un mix di prossimità geografica (Nord Africa), rilevanza energetica e Paesi in cui imprese e istituzioni italiane hanno già una presenza consolidata. Tuttavia, questa composizione comporta compromessi politici: alcuAl Vertice sui Sistemi Alimentari delle Nazioni Unite del luglio 2025, Meloni ha incontrato il Primo Ministro etiope Abiy Ahmed La Rivista · Giugno - Settembre 2025 16

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