La casa, infatti, è fisicamente immobile. L’emigrante, invece, si sposta e quando la gente va via molti immobili rimangono vuoti, anche per sempre. Nei miei anni all’estero ho conosciuto moltissimi emigranti che mi hanno parlato in vario modo delle loro case. Anche mio padre, per certi versi, era un emigrante (medico meridionale in una cittadina dolomitica) e, con il senno di poi, ho cercato di capire le motivazioni che lo hanno portato a fare certe scelte di carattere edilizio per me oggi discutibili, ma all’epoca normali. Le mie osservazioni sono chiaramente parziali e basate su percezioni personali, quindi non hanno niente di scientifico, ma alla fine ho trovato alcune tendenze che accomunano la mentalità delle persone che hanno lasciato il proprio luogo di origine per fare fortuna in un altro posto. Ci sono gli emigranti nostalgici, quelli che vivono la propria condizione con un unico obiettivo: costruire una casa grande e bella nel paesello dove sono nati e cresciuti per un certo periodo di tempo. Questo edificio diventa così il simbolo del proprio riscatto sociale nei confronti di chi è rimasto, un po’ come la macchina di lusso e un certo modo di vestirsi. Note sono le immagini degli emigranti che tornavano in Italia negli anni Settanta/Ottanta con automobili orgogliosamente di marca italiana superaccessoriate e forse ammirate dai parenti o dagli amici di giù, abituati a vetture più modeste e spesso scassate. Molti emigranti nostalgici, comunque, hanno ereditato le vecchie case dei genitori e hanno speso i loro soldi nella ristrutturazione di immobili spesso fatiscenti. È inutile qui raccontare le storie di persone che si sono dovute confrontare in infinite discussioni con familiari pretenziosi, vicini rissosi e autorità inefficienti. Fare pace con la propria nostalgia Gli emigranti pragmatici, invece, sono quelli che hanno fatto pace con la propria nostalgia e hanno deciso di investire il proprio denaro in una casa nel luogo dove hanno scelto di vivere. Spesso anche l’acquisto di un piccolo appartamento può essere sufficiente. Alcuni di loro, in ogni caso, rimangono prigionieri di una certa mania di grandezza che li porta alla costruzione di edifici sovradimensionati per le proprie esigenze, ma lo stesso psicologicamente importanti per dimostrare a sé stessi, ai parenti rimasti nel paesello e alla società ospitante che nella vita hanno raggiunto il proprio obiettivo: possedere una casa degna della nuova condizione sociale. Mio padre era un emigrante forse pragmatico, ma poco previdente e probabilmente fu mal consigliato quando si fece costruire l’enorme villa con parco dove ho passato la mia infanzia. Naturalmente ci sono un’infinità di motivazioni che portano le persone a investire le proprie risorse nella costruzione o nell’acquisto degli immobili, però è innegabile il fatto che il desiderio del possesso di una casa è collegato anche ad aspetti mentali, spesso insondabili, che vanno ben al di là delle questioni economico-finanziarie. Non è un caso il fatto che c’era una vecchia canzone italiana che faceva più o meno così: Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare sarei certo di trovare tutta la felicità. Un modesto impiego, io non ho pretese. Voglio lavorare per potere alfin I potenti, all’epoca, abitavano in lussuosi palazzi (latino palatium “monte Palatino”, cioè il luogo dove si trovava il palazzo imperiale). La Rivista · Aprile - Giugno 2025 46
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