civica fondata su associazionismo, istruzione e identità locale. Oggi Varese conserva molte tracce di questo passato: nei nomi delle vie, nei palazzi pubblici e nelle architetture razionaliste del primo Novecento, che testimoniano un periodo di ambizione e trasformazione urbana. Piazza Monte Grappa, progettata a partire dal 1925 e completata negli anni ’30, è il cuore del razionalismo varesino, antitesi visiva e funzionale rispetto alle atmosfere “antiche” di Piazza del Podestà. Realizzata come piazza civica monumentale e caratterizzata da linee nette, simmetria, prospettiva controllata e uso della pietra chiara, piazza Monte Grappa rappresenta gli ideali di ordine e gerarchia propri dell’epoca. Se la cultura a Varese sembra a volte defilata, è solo per pudore. In realtà, la città ha saputo attrarre nel tempo figure di rilievo. Giovanni Testori trascorse qui parte della sua vita, e l’ambiente prealpino, così diverso dalla Milano del fervore intellettuale, influenzò alcuni dei suoi scritti più intimi. Lo stesso si può dire per Piero Chiara, nato a Luino ma profondamente legato a Varese, di cui ha restituito atmosfere e tic linguistici in racconti che oscillano tra ironia e malinconia. Una città che non vuole impressionare, ma sa accogliere Lontana dalle grandi narrazioni industriali lombarde, Varese ha comunque avuto una sua centralità produttiva, soprattutto nel tessile e nella meccanica di precisione. Oggi, con l’avvento del terziario e dei servizi, la città si muove verso un modello economico più articolato, che coinvolge anche il turismo. Ma è un turismo particolare, fatto più di weekend che di soggiorni, più di scoperte casuali che di itinerari pianificati. Una dimensione "di passaggio" che, paradossalmente, potrebbe essere la sua vera forza. Varese è una città che non sembra voler impressionare, ma che in compenso sa accogliere. Un bar nel centro storico con i tavolini tra i portici, un sentiero che si apre all’improvviso verso il lago, una vecchia drogheria in una via secondaria: piccole esperienze che hanno il sapore dell’autenticità. E storie minori, quelle che rendono unico un luogo vivo. La funicolare che sale al Sacro Monte, costruita nel 1909 e riaperta al pubblico solo nel 2000 dopo decenni di chiusura. Oppure la curiosa presenza del Grand Hotel Campo dei Fiori, simbolo della Belle Époque varesina: un gigantesco edificio realizzato nei primi del Novecento dal grande architetto del Liberty Giuseppe Sommaruga, e abbandonato da anni, che domina la città dall’alto come un castello fantasma, e che è diventato oggetto di leggende urbane e sogni di riqualificazione. Non tutto, a Varese, è ordinato e perfetto. Ci sono quartieri in cerca di identità, ferite urbane aperte, periferie che non dialogano con il centro. Ma come spesso accade, è proprio questa dimensione imperfetta a renderla più reale. Varese non è una bomboniera; offre piuttosto contrasti, sfumature, e un certo senso della misura. In un'epoca di grandi narrazioni globali, Varese sceglie la scala locale, fatta di dettagli, di microstorie, di continuità silenziose. Forse è proprio questo il senso di Varese oggi: una città che si lascia attraversare più che visitare, che non impone un messaggio unitario ma invita a una lettura lenta. Un luogo dove il turismo non è consumo, ma esperienza; dove la cultura non è evento, ma contesto; dove l'economia non è vetrina, ma tessuto quotidiano. Una città che non ha bisogno di reinventarsi, ma solo di essere vista davvero. Prendendosi il tempo necessario. Bisogna salire al quartiere di Biumo Superiore, ed entrare a Villa Menafoglio Litta, anch’essa settecentesca (ormai per tutti Villa Panza, oggi patrimonio del FAI), per incontrare il vertice assoluto della magnificenza cittadina La Rivista · Aprile - Giugno 2025 39
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