La Rivista

sono anche un importante tassello della storia culturale delle varie regioni italiane. Si tratta spesso di testi anonimi che, proprio per questo, riescono ad esprimere i sentimenti più genuini e più profondi della nostra memoria collettiva. Ci parlano della nostalgia della patria, della speranza di un futuro migliore, del dolore per la lontananza dalla famiglia e dagli amici. Ma anche del pericoloso viaggio in nave, delle emozioni provate all’arrivo in un nuovo paese, delle difficoltà dell’integrazione, della speranza di trovare un lavoro, di come costruirsi una nuova vita, documentando le dure fatiche che dovevano affrontare. Alcuni di questi canti ci testimoniano anche l’impegno dei nostri emigranti per la conservazione della cultura, degli usi e dei costumi delle loro regioni di origine in terra straniera, dimostrando, sempre e comunque, la loro capacità di adattamento alle varie realtà locali, senza dimenticare le proprie radici culturali. Il racconto di un sopravvissuto A volte, alcuni di questi canti sono la fonte più diretta della tragica cronaca della nostra emigrazione: per esempio Mamma mia dammi cento lire / Che in America voglio andar, della fine del XIX secolo, che ci ricorda i vari naufragi di navi cariche di nostri emigranti perché: Quando furono in mezzo al mare Il bastimento si sprofondò (si sprofondò). Ritorniamo a Mattmark, per ricordare che un sopravvissuto, scampato al pericolo, perché si trovava al limite della zona interessata alla catastrofe, ha testimoniato di aver sentito «Solo un vento terribile… Poi ci fu un gran boato e la fine. Autocarri e bulldozer furono scaraventati lontano». Come ci ricorda anche Toni Ricciardi, autore di Morire a Mattmark, l’ultima tragedia dell'emigrazione italiana, Donzelli 2015): «ci vollero quasi due anni per recuperare i resti dell’ultima salma. Il ghiaccio non travolse il cantiere, bensì le baracche… Se il crollo fosse avvenuto verso l’ora di pranzo, i morti sarebbero stati 600». I corpi furono dunque tutti recuperati, anche se la citata Ballata, composta subito dopo la tragedia, dice che ancor oggi una coltre ricopre operai ch'eran pieni di vita e una bara di neve indurita dove salvarli nessuno riusci passa il tempo e forse per sempre resteranno dei corpi nel ghiaccio la montagna col bianco suo abraccio se li tiene li prese con se. Dopo quella catastrofe, la costruzione del bacino artificiale richiese ulteriori molte «indagini e perizie glaciologiche» e «ancora oggi Mattmark è una delle centrali idroelettriche più grandi d’Europa» (Toni Ricciardi, da Domani, 30 agosto 2023). Quel sopravvissuto, per pura casualità, al disastro, era il bellunese Gianni Da Deppo, che nei mesi successivi fu impegnato nelle operazioni di recupero delle salme, diventando così la memoria storica dell’immane tragedia. Per il resto della sua vita partecipò, infatti, a tutte le commemorazioni che si tenevano non solo in provincia di Belluno, portando la sua testimonianza nelle scuole, ma anche a Mattmark, per l’ultima volta nel 2015 in occasione del 50esimo anniversario della tragedia. Il suo impegno si protrasse, comunque, fino alla sua morte, avvenuta, nell’ottobre del 2023, all’età di 90 anni, a Domegge di Cadore, paese delle Dolomiti, sulla sponda destra del Piave. Gli immigrati italiani hanno dato un alto contributo di sangue su tanti altri cantieri svizzeri. Basta ricordare che durante la costruzione della galleria ferroviaria del San Gottardo (tra il 1872 e il 1882), furono contati ufficialmente 177 morti, in gran parte italiani, visto che la manodopera impiegata era costituita al 95% da nostri connazionali, costretti a lavorare La tragedia di Mattmark sulla copertina del settimanale La Domenica del Corriere del 12 settembre 1965, con un disegno di Walter Molino ed un ampio articolo interno di Luigi Cavicchioli inviato a Saas Almagell La Rivista · Aprile - Giugno 2025 32

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