Giangi Cretti Direttore gcretti@ccis.ch La Rivista Editoriale so di cittadinanza”, in presenza di una “stortura” che “potenzialmente rende i richiedenti di cittadinanza più numerosi degli abitanti in Italia”, ha messo mano alla legge, riformandola. E lo ha fatto con procedura d’urgenza. Con un decreto ministeriale rapidamente convertito in legge. In tal modo, sostanzialmente azzerando le consultazioni, il dibattito, il confronto parlamentare. Ecco, dunque, che il metodo a cui si è fatto ricorso ha immediatamente innescato lo scontro - che solo l’imbarazzo, la superficialità o, peggio ancora, la sudditanza partitica può imbrattare come ideologico – di cui, primi fra tutti, hanno approfittato i cultori della dietrologia che si sono prontamente interrogati: cos’è successo nei primi mesi di quest’anno da giustificare cotanta urgenza? Le risposte al quesito che sono circolate inducono a pensare che, se fossero fondate, la realtà avrebbe superato la più fervida fantasia. Ma al di là dei motivi, veri presunti o pretestuosi, che ne spiegherebbero l’urgenza, è l’esito di tale procedura che ha creato disorientamento e preoccupazione al di fuori dei patri confini in tutti quei Paesi dei due emisferi, dove i connazionali hanno cercato e trovato (e ancora cercano e talvolta trovano) accoglienza e opportunità per una vita decorosa e dignitosa. Infatti, se, per quanto riguarda la trasmissione della cittadinanza jure sanguinis, condivisibile è il fatto che la legge ponga un tetto all’ascendenza, fissandolo a due generazioni (ai nonni per intenderci), in un articolo, il 3 bis, la nuova legge introduce condizioni che palesemente penalizzano gli italiani emigrati. Stabilendo, retroattivamente, che, sempre al fine della trasmissione della cittadinanza italiana, un genitore o un nonno debba aver risieduto per almeno due anni continuativi in Italia, si tende a colpire quasi totalmente la discendenza di chi è emigrato Oltreoceano. Avventura che sappiamo intrapresa principalmente tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo. Al contempo, Introducendo come possibile alternativa (come ulteriore paletto?) che un genitore o un nonno debba essere esclusivamente cittadino italiano, esautora soprattutto buona parte degli emigrati stabilmente residenti in Europa o negli Stati Uniti, che sono anche doppi cittadini. Condizione questa che interessa almeno il 60% degli italiani che vivono In Svizzera. La retroattività della legge (sulla cui costituzionalità sono già stati inoltrati ricorsi e avviate puntuali verifiche) unita ai due requisiti appena menzionati, ha determinato una reazione di forte dissenso fra le comunità in giro per il mondo. Accanto a quelle di alcuni parlamentari eletti all’estero – non tutti riconducibili ai partiti d’opposizione - e degli organismi di rappresentanza, Comites e CGIE, emergono sempre più consistenti la preoccupazione, la contrarietà e le proteste degli italiani all’estero, i quali si vedono in prospettiva drasticamente e improvvisamente limitata la possibilità di trasmettere automaticamente la cittadinanza ai propri discendenti. Eccezioni la nuova legge ne prevede, ma tutte circoscritte ad un orizzonte temporale di un anno. Dopo di che bisognerà attendere una nuova riforma di legge. Nel frattempo, oltre che all’eventuale incostituzionalità, ci si appiglia, oltre a qualche accorgimento tecnico in fase di applicazione, alle affermazioni del Ministro Tajani, che ricorda come il Parlamento sia sovrano e sia quella la sede dove si legifera, o del Presidente della Repubblica, che comprende lo “spaesamento” di chi vive fuori d’Italia e si mostra ricettivo a considerazioni che aiutino a “riconsiderare la legge”. Che comunque ha autorevolmente firmato. L’impressione prevalente è che tutti siano disposti ad ammettere che la legge approvata sia “perfettibile” e “migliorabile”. In molti fortemente lo auspicano. Anche se allo stato attuale chi la legge l’ha approvata, la maggioranza del Parlamento, ritiene sia bene che venga applicata. Almeno per tutto il tempo necessario a “normalizzare” la situazione, rimediando a quelle “storture” a cui abbiamo fatto cenno in precedenza. Quando il rimedio è peggio del danno. Ovvero: “xe péso el tacon del buso”, come direbbe un padovano. Credo si possa convenire. Senza ostentare troppe frizioni o indugiare in oziosi distinguo: una ridefinizione della normativa che regola la trasmissione della cittadinanza italiana jure sanguinis (per discendenza) - da tempo vagheggiata e puntualmente rimandata per non scontentare una volta gli uni, l’altra volta gli altri -, era opportuna. Per più di una ragione. Evitare che, senza porre un tetto all’ascendenza, noi cittadini italiani all’estero, ci si ritrovasse, sempre più numerosi, tutti discendenti di Giuseppe Garibaldi, oppure, a latitudini diverse, di Cristoforo Colombo, Ferdinando Magellano o persino di Giulio Cesare. Eternamente, automaticamente italiani. Porre fine ad un mercimonio, ormai appurato e dilagante, appannaggio di coloro che, portafogli alla mano, la cittadinanza se la potevano comprare. Bypassando, va da sé, un iter amministrativo impossibilitato a far fronte a richieste che, in sempre più casi, sono pendenti da anni. Creare i presupposti per una cittadinanza, che oggi si vorrebbe consapevole, espressione della volontà più che del bisogno, in cui siano riconosciuti e riconoscibili indelebili diritti al pari di altrettanti imprescindibili doveri. Stabilire requisiti – uno di questi senza dubbio la competenza linguistica - in grado di identificare un nesso tangibile e misurabile fra cittadinanza e appartenenza identitaria. Fin qui, dettagli a parte, un approccio condivisibile. Poi succede che il Governo, ritendo che “i tempi fossero maturi” – perché si rischiava “lo svuotamento del senso stes-
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