La Rivista

sione dell’inaugurazione conobbi Eduard von Fellenberg, che divenne un grande amico e avrebbe gestito il museo, come voleva Régine, non come un mausoleo, ma un centro per artisti, che vi potevano soggiornare per mesi e attendere alle loro opere. Régine non amava parlare di sé, sperava piuttosto che fosse la sua opera a parlare, a dare ispirazione, speranza, conforto. Dopo l’inaugurazione proposi un articolo al Diario della settimana e col redattore Andrea Jacchia parlammo delle opere di Régine. Il suo opus magnum rimane il gruppo di cinque vetrate (alte 13 metri) nella sinagoga Hechal Schlomo a Gerusalemme. Jacchia aveva visitato la sinagoga alcuni anni prima ma durante la visita guidata gli era stato detto che erano state realizzate da Chagall. Solo molti anni dopo sarebbe stata apposta una targa con il nome di Régine Heim: infatti, quando il suo progetto venne approvato – alla fine degli anni 80 - vi furono opposizioni in quanto Régine non solo era donna, ma era altresì residente in Svizzera. Fu l’architetto della sinagoga Alexander Friedman ad impuntarsi e rispondere affermativamente alla domanda “E Miss Heim sarebbe in grado di farlo?” Regine Heim (n. Ryfka Frajdenraich) era nata nel 1907 (o 1908) a Varsavia da una famiglia ebraica chassidica. Giunta a dieci anni a Ginevra, crebbe con i nonni paterni in un ambiente permeato di forte spiritualità: il nonno era un rabbi e la nonna si dedicava allo studio della Cabala benché fosse interdetta alle donne. Dopo gli studi in musica e filosofia, si avvicina all’arte: studia con Max Gubler alla Kunstgewerbeschule di Zurigo e frequenta l’atelier di Alfred Aberdam e Gustav Wolf, quindi diviene allieva di Albert Schilling e poi, a Parigi e Saint Tropez, di Germaine Richier (a sua volta allieva di Antoine Bourdelle). Nel 1934 sposa Otto Heim, un sindacalista svizzero (e presidente del Verband Schweizerischer Jüdischer Fürsorgen) che durante la seconda guerra mondiale si prodigò nell’aiuto ai migranti ebrei in Palestina (il loro lascito, cui ancora manca l’attenzione che meriterebbe, è preservato nel Museo dell’Olocausto di New York e nello zurighese Archiv für Zeitgeschichte). Dopo la guerra Régine poté dedicarsi all’arte, soprattutto alla scultura in bronzo e alle vetrate. Ritrasse figure bibliche e mitologiche, ma anche persone a lei conosciute ed erano molte le opere dedicate al femminile; era particolarmente legata a una scultura, esposta a Ginevra, di una donna che reggeva in grembo un bambino morto (Régine non ebbe figli). Un’opera poliedrica permeata da suggestioni a Auguste Rodin, Giacometti, Moore e Brancusi, e che esprime una profonda consuetudine con la mistica ebraica, l’umanesimo dei profeti e l’esuberanza vitalistica del chassidismo Nelle sue opere più astratte – che includono rivisitazioni dei caratteri ebraici, angeli e figure alate - si percepisce lo sforzo, rilkiano, di esprimere l’ineffabile ma anche far presentire l’energia cosmica in modo analogo all’opera di Hans Arps. Nel 1988 venne insignita di una laurea honoris causa in filosofia dall’Università Haifa. In quell’occasione disse: “Non è facile superare gli ostacoli che nascono quando si cerca di esprimere una visione interiore. Lo spirito dell’arte è un’avventura imprevedibile e piena di significati. È un mistero, è sempre la cristallizzazione di processi interiori”. Ritratto di Scholem a Chambesy, Ginevra (© Giovanni Sorge) Una delle vetrate (particolare) nella sinagoga Hechal Schlomo a Gerusalemme (© D. Harris) La Rivista · Ottobre-Dicembre 2024 67

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