Regine Heim a vent’anni dalla sua scomparsa di Giovanni Sorge Quando cinque lustri fa giunsi a Zurigo per proseguire le mie ricerche sulla storia della psicoanalisi, andai in “pellegrinaggio” a visitare i vari luoghi junghiani: dall’ospedale psichiatrico Burghoelzli, ove il giovane C.G. Jung partorì, per così dire, l’idea di inconscio collettivo, all’abitazione a Küsnacht, oggi divenuto museo, all’Istituto Jung e naturalmente all’archivio dell’ETH che conserva il lascito mastodontico di colui che assieme a Freud rivoluzionò la psicoterapia e scombinò irreversibilmente il discrimine tra sanità e malattia psichica. Giocoforza, visitai lo Psychologischer Club in Gemeindestrasse, fondato nel 1916 e tuttora attivo. Di quella sera non ricordo né il tema né il relatore, ma solo la mia eccitazione nel trovarmi in quel “cenacolo” piuttosto âgé e purtuttavia partecipe alle discussioni che seguirono la conferenza. E dato che si parlava del potere trasformante e talora predittivo delle immagini interiori, mi trovai a superare una certa mia naturale timidezza e a intervenire leggendo da un libro che avevo con me un sogno di Ernst Bernhard, il primo analista junghiano in Italia e che Fellini considerava suo vero maestro spirituale, sogno che raccontava, svariati anni in anticipo, come Bernhard sarebbe stato liberato dal confino a Ferramonti, in Calabria, ove fu imprigionato per quasi un anno dal 1940. Dietro di me un’anziana signora mi chiese di mostrarle il libro. Lo guardò, rilesse quel sogno, ne fu colpita. Si presentò, e mi disse di essere un’artista. Jung lo aveva conosciuto, anzi, aggiunse, vede quella scultura? Gliel’ho fatta io. Mentre guardavo basito il busto di bronzo raffigurante Jung aggiunse: “Non fu facile convincerlo. Ma quando vide la statua fu ultimata ne fu felice e mi disse che in essa vedeva qualcosa di un rabbi ebraico”. Il che mi colpì ancor più dato che stavo iniziando una ricerca sul controverso rapporto di Jung con l’ebraismo (e sulla vecchia questione del suo presunto antisemitismo). “Sa, ho fatto anche altre cose, se vuole le faccio vedere qualcosa”, aggiunse. Mi diede appuntamento l’indomani e andammo in taxi a vedere il suo atelier, in Voltastrasse. Mi si aprì un mondo. Mi trovai circondato da una pletora di ritratti bronzei, fra cui quello del grande studioso di cabala e mistica ebraica Gershom Scholem cui la unì una decennale amicizia. Ma vi erano poi altre sculture di lettere ebraiche e figurazioni simboliche che potevano sembrare astratte e al contempo mostravano una concretezza e una ricerca sulla forma che mai avevo visto prima. Quindi, al cimitero ebraico di Friesenberg (ove oggi Regine è sepolta) mi mostrò la sua vetrata – un’esplosione di colori al centro dei quali vi è una pietra a forma di aleph, la prima lettera dell’alfabeto ebraico, a rappresentare l’origine del mondo. (Un’altra sua vetrata è esposta alla sinagoga Les Berges du Léman a Vevey). Regine mi onorò di un’amicizia che molto mi insegnò (fra cui, ad esempio, come vivere in Svizzera senza intestardirsi di farsi piacere lo schwytzertütsch) benché, purtroppo, poco durò. Le feci visita di frequente, anche per carpire qualche informazione su di lei: di lì a poco, infatti, sarebbe stato inaugurato a Chambesy, presso Ginevra un museo dedicato a lei e al marito Otto Heim. In occaLa Rivista Cultura Régine Heim (© Marlène A. Rézenne) La Rivista · Ottobre-Dicembre 2024 66
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