La Rivista

probabilmente da precursore. Il giornalista Alessandro Chetta afferma a questo proposito “Le chiese si vanno svuotando ma le religioni restano. Per paradosso anche la società laica ne ha escogitata una: è il politicamene corretto che nella sua estensione americana è diventato ideologia woke, una forma di moderno catechismo, progressista in teoria e intollerante nella pratica, non fede ma dogma. Dal pulpito dei social i nuovi bigotti rigettano in pieno l’Occidente bianco e colonizzatore. Così le guerre culturali stanno assumendo i toni mistici di un culto provocando reazioni conservatrici altrettanto violente”. La cultura della cancellazione, che si traduce nel boicottaggio di personaggi, opere culturali, imprese in qualche modo legate storicamente allo sfruttamento di minoranze. Su internet leggo2 che nella cultura giuridica italiana “il diritto alla libertà di manifestare il proprio pensiero, rischia di essere limitato ove un movimento di cancellazione porti a eliminare o boicottare opinioni, personaggi e fatti storici non in linea con le idee e le sensibilità della maggioranza o comunque di un gruppo influente. (…) L’individuo deve pertanto avere la possibilità di conoscere anche i fatti storici più sgradevoli, così come le opinioni dissonanti, senza che vi sia qualcun altro in grado di decidere aprioristicamente per lui”. Posizione che lascia ben sperare, affinché le esperienze storiche possano servire da insegnamento, e permettere di riflettere qualche minuto prima di decidere di abrogare ad esempio, come ventilato in ambienti ginevrini, la Festa della mamma per non correre il rischio di discriminare eventuali famiglie di soli papà. Ma come avranno mai fatto a fare a meno di una mamma, visto che la clonazione non si applica ancora gli esseri umani? L’ossessione per l’idea di inclusione. Quando ero una giovane ricercatrice nel campo socio-psicologico il concetto di riferimento in termini studi sui fenomeni migratori era quello di integrazione. Nella mia tesi di dottorato nei primi anni Novanta ho mostrato come i giovani di origine italiana (figli degli immigrati di prima generazione) che si dichiaravano soddisfatti della qualità della loro vita in Svizzera erano in fondo riusciti a selezionare e a articolare tra loro i due universi culturali in cui erano cresciuti: l’ambiente elvetico e talune radici culturali italiane. Gli approfondimenti sulla nozione di integrazione permettevano uno studio analitico dei processi psicosociali che i giovani mettevano in atto per affrontare con successo alcune sfide esistenziali, identitarie e relazionali. Oggi il termine inclusione, che suggerisce nobili petizioni di principio del tipo “accogliamoli tutti”, ha sostituito in materia di dibattiti e politiche migratorie quello di integrazione. Non sono sicura che si tratti di una buona idea. Alla complessa ricerca e al serio approfondimento delle condizioni che permettono l’integrazione si è sostituito uno slogan di sicuro impatto politico per dibattiti televisivi tra opposte fazioni. Anche in campo linguistico, l’imposizione della pratica del cosiddetto linguaggio inclusivo mi sembra comportare più inconvenienti che vantaggi. Nata come “tutti” sappiamo per esprimere chiaramente che gli enunciati includono sia persone di sesso femminile che maschile sta ottenendo l’effetto opposto: ad esempio prima del dilagare delle formule inclusive sarebbe risultato chiaro La Rivista Elefante invisibile1 Anche in campo linguistico, l’imposizione della pratica del cosiddetto linguaggio inclusivo sembra comportare più inconvenienti che vantaggi La Rivista · Ottobre-Dicembre 2024 48

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