Giangi Cretti Direttore gcretti@ccis.ch La Rivista Editoriale pubblico e dell’astensionismo elettorale), un’analisi più approfondita, volta a collocare gli eventi congiunturali nell’alveo dei processi lunghi di trasformazione della società italiana, sempre secondo il Rapporto, ci consegna una immagine più aderente alla reale situazione sociale del Paese. La sindrome italiana è la continuità nella medietà, in cui restiamo intrappolati: non registriamo picchi nei cicli positivi, non sprofondiamo nelle fasi critiche e recessive. Nel medio periodo, i principali indicatori economici, ovvero il Pil, i consumi delle famiglie, gli investimenti, le esportazioni, l’occupazione, tendono a ruotare intorno a una linea di galleggiamento – senza grandi scosse, né in alto, né in basso – all’interno di un campo di oscillazione molto ampio, perimetrato dai valori massimi e minimi toccati dai Paesi europei. Ci flettiamo come legni storti e ci rialziamo dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti. Anche nella dialettica sociale, infatti, la sequela di disincanto, risentimento, frustrazione, senso di impotenza, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole, così caratteristica dei nostri tempi, non è sfociata in violente esplosioni di rabbia. Ma il lento andare nel tempo dell’economia ha sancito definitivamente che la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata. All’erosione dei percorsi di ascesa economica e sociale del ceto medio si sta accompagnando la messa in discussione dei grandi valori unificanti del passato modello di sviluppo (il valore irrinunciabile della democrazia e della partecipazione, il conveniente europeismo, il convinto atlantismo). Se non si può più salire socialmente grazie alle capacità personali, all’impegno, al merito, allo studio e al lavoro, vivendo dentro una società proiettata verso la crescita, allora, in una società che invece galleggia, il desiderio di riconoscimento può – e deve – essere appagato spostando la partita in un altro campo da gioco: quello della rivalità delle identità. Si ingaggia una competizione a oltranza per accrescere il valore sociale delle identità individuali etnico-culturali, religiose, di genere o relative all’orientamento sessuale. Nel nuovo contesto, le questioni identitarie tendono a sostituire le istanze delle classi sociali tradizionali e assumono una centralità inedita nella dialettica socio-politica. La contesa può dispiegarsi sul piano formale, nella ricerca della codificazione di un preciso status giuridico, altre volte si svolge su un piano squisitamente simbolico, dentro una sempre più aspra dialettica sociale delle differenze, che implica l’adozione della logica “amico-nemico” Mentre il dibattito politico si arrovella sui criteri normativi da adottare per regolare l’acquisizione della cittadinanza italiana, in una parte della popolazione ha messo radici la convinzione che esista una identità distintiva: secondo il 37,6% degli italiani (e il dato sale al 53,5% tra le persone in possesso di un basso titolo di studio) l’“italiano vero” discende da un ceppo morfologicamente definito, fonte originaria della identità nazionale. Addirittura, il 13,7% (il 17,4% tra le persone meno scolarizzate) pensa che per essere italiani occorra poter esibire determinati tratti somatici. La mancanza di conoscenze di base rende i cittadini più disorientati e vulnerabili. Mentre si discute di egemonia culturale, per molti italiani si pone invece il problema di una cittadinanza culturale ancora di là da venire (del resto, per il 5,8% il «culturista» è una «persona di cultura»). Che lascia prevedere una condizione di ignoranza diffusa anche nel prossimo futuro, quando spetterà alle attuali giovani generazioni occupare posizioni di responsabilità. Nel limbo dell’ignoranza, e il Rapporto ce ne dà conto, possono attecchire stereotipi e pregiudizi. Senza contare che l’ignoranza è una minaccia anche per la democrazia, se per i cittadini diventa difficile decodificare le proposte politiche, riconoscendo quelle fondate su presupposti falsi o con fini manipolatori. *58° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2024 Lo si legge nel rapporto*. Che, come ogni anno, si rivela uno scrigno di dati su cui fondano (affondano?) ragionamenti che (pia aspirazione?) sarebbe utile non ignorare. Tutto quello che conta davvero sembra accadere (in taluni casi verrebbe da dire: per fortuna!) al di fuori dell’Italia: la guerra senza fine improvvisamente combattuta alle porte dell’Europa o il cruento conflitto scoppiato in Medio Oriente, i vincoli imposti da Bruxelles alle finanze pubbliche, le decisioni della Bce sui tassi di sconto o la strisciante crisi politica che ghermisce l’Unione europea. In prospettiva, per la metà, o giù (su?) di lì, degli italiani il futuro sarà condizionato dal cambiamento climatico, dai ricorrenti eventi atmosferici catastrofici, dalla piega che prenderà la guerra in Medio Oriente, dal rischio di crisi economiche e finanziarie globali e dalle conseguenze dell’aggressione russa all’Ucraina. Per un terzo, o su (giù?) di lì, dalle migrazioni internazionali, dalla guerra commerciale e dalle tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina, dagli stravolgimenti prodotti dalle innovazioni tecnologiche. Risvegliati dall’illusione che il destino dell’Occidente fosse di farsi mondo, viviamo in un mondo agitato da forti tensioni, in cui nessuno è contento di come il mondo è. Un mondo risentito e minaccioso, in cui le insoddisfazioni dei leader e dei popoli si stratificano e si rinfocolano, introducendoci in un’era dello scontento globale. Il destino dell’Italia è iscritto nel solco del cambiamento d’epoca che investe le società europee e occidentali, ma con sue proprie specificità. E se a prima vista il 2024 potrebbe essere ricordato come l’anno dei record per l’Italia (il record degli occupati e del turismo estero, ma anche della denatalità, del debito
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