La Rivista

dedicata – con studi teorici e attività pratiche – all’insegnamento, ho avuto spesso la gioia di assistere ad una sorta di miracolo: il cammino dell’allievo-studente da una postura del tipo “non lo so fare” alla “riuscita”. Pensiamo ad esempio al passaggio che vive un bambino tra “non so leggere”, “ci provo e sbaglio più volte”, e infine “hurrah sono ormai capace!”. E cosi per tutta la vita e in tutti i campi: sportivi, lavorativi, sociali, artistici, ecc… Due sono le condizioni necessarie per il “lieto fine” in termini di apprendimento: in primo luogo, accettare lo sforzo e il rischio di inettitudine insiti nella fase delicata del “ci provo anche a rischio di sbagliare”. In secondo luogo, contare sulla benevola ma rigorosa presenza di una maestra/un maestro (che noia questa nuova incombenza del linguaggio cosiddetto inclusivo, lo uso a questo punto ma poi lascio perdere) che non si limiti a criticare i maldestri tentativi dei discenti, ma accompagni e incoraggi i passi che portano alla riuscita. Solo così le persone trovano poi il coraggio per affrontare nel corso della vita i compiti (e sono molti) che comportano rischio di errore. Da alcuni anni formo ricercatori e formatori nel campo delle scienze umane a delle nuove metodologie di analisi delle esperienze che comportano non poche innovazioni rispetto a modalità più tradizionali. Ciò implica per le persone in formazione il rischio di (ri)vivere l’esperienza emotivamente e cognitivamente stressante del principiante che non sa, sebbene in altri campi esse dispongano di un grande bagaglio di risorse. Ebbene, mi sono accorta nel corso degli anni che dovevo aiutarli in via preliminare a integrare l’idea di come l’errore costituisca spesso il presupposto imprescindibile per appropriarsi della novità e non un fatto di cui vergognarsi. Inutile dire che le persone che riuscivano meno bene nel percorso erano i “perfezionisti”, restii ad accettare l’idea di mostrarsi temporaneamente incompetenti. L’errore come fonte di conoscenza del mondo reale. Molti studi in campo psicologico mettono bene in evidenza come l’errore costituisca un’esperienza che può avere un duplice sbocco: può essere una tappa indispensabile nel percorso di crescita della persona e di progressiva presa d’atto della realtà, oppure un ostacolo eretto sulla via dello sviluppo, sotto forma di reiterati comportamenti fallimentari. Comunque sia, l’errore si manifesta se e quando si agisce, in particolare allorché si tratta di azioni che comportano fattori di rischio. Un bambino che si inerpica su un albero preso dall’eccitazione dell’arrampicata – magari suggestionato dalle immagini appena viste in TV di Tarzan che vola letteralmente da un albero all’altro – non pensa ai rischi che corre… fino a quando… il ramo che lo regge si spezza, oppure fino al momento in cui guarda verso il basso e la paura del vuoto lo attanaglia. Cosa impara? A volte a conoscere i propri limiti; altre volte ad attrezzarsi meglio per assicurarsi contro eventuali cadute; altre volte ancora a sviluppare una fobia degli alberi. Quando si cresce, coloro che intraprendono percorsi rischiosi in campo sportivo, economico, politico, creativo, artistico hanno molte più probabilità di commettere errori, anche di grande portata, rispetto alle persone che scelgono sempre la facilità ed evitano le responsabilità per paura di sbagliare. In campo sportivo, mi affiora alla mente un ricordo: il celebre rigore sbagliato di Roberto Baggio nella finale della coppa del mondo contro il Brasile, nell’ormai lontano 17 luglio 1994. Sono andata a ripercorrere i commenti della stampa a questo riguardo e ne ho ricavato l’impressione che tale errore sia stato vissuto dai tifosi italiani come un enorme shock emotivo, al pari di un “lutto collettivo”. Prima di quel rigore Baggio era una sorta di super eroe nazionale. Freud ha definito coazione a ripetere la tendenza a reiterare inconsciamente scelte e strategie di azione che si rivelano poi errori fallimentari. La Rivista · Settembre 2024 48

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