La Rivista

1924-2024: Giacomo Matteotti nel centenario del suo assassinio Fermoposta a Zurigo Nel pomeriggio del 10 giugno 1924, a Roma, Giacomo Matteotti, nato il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, da famiglia originaria della Val di Pejo (Trentino), mentre si recava a Montecitorio, fu rapito e barbaramente ucciso da ben noti sgherri fascisti. Poche settimane prima, invitato dalla locale sezione del Partito Socialista Italiano era intervenuto come oratore ufficiale al 1° maggio a Zurigo. Due anni prima, il 1° maggio 1922, era stato l’oratore ufficiale a Winterthur, ospite della Cooperativa Socialista di quella città. Dopo essere intervenuto alla manifestazione di Zurigo, Matteotti pranzò al Ristorante Cooperativo, il Coopi, alla Militärstasse 36, insieme a Pietro Bianchi, “il muratore organizzato”, che sarebbe stato poi anche direttore nominale de l’ Avanti! Come era sua consuetudine, Matteotti fece molte domande a Pietro al suo commensale sulle paghe e sul costo della vita degli immigrati italiani. Egli era, infatti, come ci ricorda Piero Gobetti, uno «”spulciatore di conti e di bilanci”, che passava le domeniche con i contadini a insegnare loro la tenuta dei libri delle nascenti cooperative…». Sempre per Gobetti, «che pure era un critico impietoso del socialismo italiano, da molti punti di vista, Matteotti era un personaggio perfetto per le valenze simboliche che gli si poteva attribuire… Aveva un’origine borghese… era figlio di un proprietario abbastanza abbiente, ma aveva scelto di schierarsi con il movimento socialista, con i lavoratori». A Gobetti piaceva tantissimo «per la competenza e l’assenza di demagogia», ma anche perché «non era uomo da comizio, da sagre, ma di Tindaro Gatani «Mussolini, da giovane, era prepotente anche per il suo desiderio di farsi notare ad ogni costo, cioè per l’esibizionismo [noi diremo istrionismo], quell’esibizionismo che, salito al potere, gli fece commettere l’errore di lasciare appendere in tutti gli uffici governativi italiani cartelli contenenti lo sproposito: “Mussolini ha sempre ragione!”. L’Italia ufficiale capitolò, credendo che Mussolini fosse il solito politico da soddisfare con una nomina a capo del governo. Abbiamo, davanti a noi la fotografia delle camicie nere, giunte a piedi a Roma, con, in mezzo Mussolini, venutovi in treno [in vagone letto di prima classe], con camicia nera e sciarpa, pantaloni senza piega e notevoli ginocchiere, nonché quelle orribili ghette chiare. [La moglie] Rachele commentò la sua nomina a capo del governo con le parole: “Che vergogna”. Cioè, che faccia di bronzo. Essa lo conosceva bene, come tutte le donne romagnole conoscono il loro “vomo”». Da Giovanni Iviglia, Segretario generale della Camera di Commercio Italiana in Svizzera (CCIS) dal 1939 al 1970, in Mussolini giocatore d’azzardo, Bellinzona 1971. La Rivista Cultura La Rivista · Marzo 2024 45

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