Bernasconi, scrittore e giornalista ticinese, che già nel titolo indica “la forza del federalismo svizzero” nel suo essere “moderno perché premoderno”. Viviamo, scrive Bernasconi, in un’epoca in cui l’intero Occidente è pervaso da “crescenti difficoltà a garantire una stabilità politica e un’ampia legittimazione democratica”; in cui “la rinuncia del cittadino a una parte della propria libertà a favore della volontà generale (come propugnato da Rousseau)” mostra tutti i suoi limiti; e in cui “la tecnologia digitale mette a dura prova il contratto sociale nazionale, creando nuovi poteri su scala sovranazionale”. In questo contesto, che peraltro crea non pochi problemi a un’Unione europea di cui la delega della sovranità è uno dei pilastri, “il particolare e complesso sistema di pesi e contrappesi politico-istituzionali su cui poggia la Confederazione Elvetica, nonché la cultura politica che è andata sviluppandosi in questo paese pluriculturale e plurilingue in molti secoli, rappresentano elementi di forza che permettono alla Svizzera – paese alpino di dimensioni ridotte e storicamente privo di materie prime – di figurare ai vertici dell’innovazione, della scienza e della ricerca, del pil pro capite e della stabilità politica”. Nella sua analisi Bernasconi (sua la citazione di Napoleone qui sopra) si addentra nei meccanismi politicoistituzionali elvetici sottolineando l’importanza del principio di sussidiarietà che ne rappresenta uno dei cardini. Bernasconi cita anche Denis De Rougemont, quando individuava la missione essenziale della Svizzera nel “salvaguardare una Weltanschauung in cui i diritti del particolare e i doveri verso il generale si fecondino reciprocamente. I diritti dei Comuni e quelli del Cantone, i diritti del Cantone e quelli della Confederazione, i diritti della Svizzera e quelli dell’Europa: immagini e conseguenze dell’equilibrio fondamentale che intercorre fra i diritti della persona e quelli della comunità”. Di qui anche l’esigenza, trasposta pure in ambito economico, di quella “cultura politica pragmatica, refrattaria alle grandi visioni volontaristiche calate dall’alto, una cultura del negoziato paziente ma tenace che la Svizzera ha saputo sviluppare fino ai giorni nostri”. Una cultura che conserva ancora l’impronta premoderna dei principi contrattuali originari: quelli alla base del patto originario, quel foedus da cui origina il termine stesso “federalismo”. L’uomo che salvò l’orologeria svizzera Sono numerosi i concetti che ricorrono nelle 220 fitte pagine di questo numero di Limes, e che rappresentano altrettanti capitoli, altrettanti strati del complesso agglomerato elvetico. In primo luogo, quella neutralità che per molti è la quintessenza della svizzeritudine, e che l’invasione russa dell’Ucraina e l’adesione svizzera alle sanzioni internazionali sembra mettere parzialmente in discussione. Ma anche le migrazioni, che storicamente ne fanno uno dei paesi con il maggior numero di “stranieri”: oggi oltre un abitante su quattro ha un retroterra migratorio. Altre parole d’ordine sono la democrazia diretta, il plurilinguismo, la piazza finanziaria, l’industria orologiera, la tecnologia, il rapporto con le grandi nazioni confinanti. In particolare. quello con Italia, approfondito nella sezione La Svizzera e noi da Paolo Peluffo, Toni Ricciardi, Monica Dell’Anna, Michele Rossi e Remigio Ratti. Le altre due sezioni in cui si articola il volume si intitolano rispettivamente Le Svizzere nelle Svizzera (con interventi, oltre a quelli citati per esteso più sopra, di Irene Kälin e Roger Koppel, Oscar Mazzoleni e Andrea Pilotti, Nenad Stojanovic, Alice Britschgi, Fabio Pusterla e Monika Schmutz Kirgöz), e Svizzera mondiale (di cui parlano Thomas Maissen, Alexis Lautenberg, Pälvi Pulli, Bernardino Regazzoni, Pietro Meineri, Paul R. Seger, Géraldine Savary, Lino Terlizzi, Marcello Spagnulo, Daniel Duttweiler, Tamara Odermatt e Friedemann Bartu). Di Bartu è – si parva licet – il mio preferito fra i contenuti del volume, che racconta Come Swatch salvò la potenza dell’orologio svizzero: una rievocazione dei tempi in cui la nascita degli orologi elettronici, inizialmente snobbati dall’industria orologiera elvetica, mise pesantemente in crisi l’intero comparto, e in cui la genialità e la creatività di un solo uomo permise, grazie anche alle banche che credettero nel suo progetto, di risvegliare il “gigante addormentato” (l’industria nazionale dell’orologio, appunto) e perpetuarne il ruolo di leader mondiale nel settore. Quell’uomo, naturalmente, era Nicolas G. Hayek, matematico libanese, “immigrato in Svizzera per amore”. La Rivista Società La Rivista · Marzo 2024 23
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