La Rivista

Giangi Cretti Direttore gcretti@ccis.ch La Rivista Editoriale In apparenza almeno, è l’elemento dirimente nella contesa che, a vari livelli, agita il dibattito attorno a quella che in molti Paesi d’Europa è diventata l’etichetta della discordia. È il Nutriscore, il famoso (ma per alcuni famigerato) semaforo, con i colori che vanno dal verde acceso al rosso intenso e con lettere dalla A, associata al verde brillante, attribuita ai prodotti più genuini, alla E di colore rosso acceso destinata a quegli alimenti con più sale, zuccheri o, semplicemente, più grassi. Di per sé, l’intento è nobile: preservare la salute dei consumatori e anche l’ambiente, poiché il Nutriscore premia tutti quei prodotti alimentari che sono più sani e più ecosostenibili, con meno coloranti e conservanti. All’apparenza, un modo semplice e intuitivo, che però, come spesso accade, non fa l’unanimità. Anzi. In molti pensano che dietro ci siano sempre gli interessi delle grandi aziende multinazionali e sottolineano come alcuni prodotti di eccellenza siano indicati con la lettera E su sfondo rosso, mentre prodotti industriali e molto lavorati siano contrassegnati con lettera A in campo verde. Per quanto sia comprensibile che nessuno voglia che i propri prodotti finiscano per essere considerati nemici della salute e dell’ambiente, restano alcune evidenze scientifiche che risultano insindacabili: • L’obesità e le malattie correlate sono un problema grave e comune a tutti i Paesi industrializzati • Le strategie per ridurla devono essere educative (dieta e stile di vita) • Diffondere la disinformazione è fuorviante e confonde • I sistemi coercitivi e fiscali non sono educativi e non sembrano essere efficaci A ciò si aggiunga, che le diete non salutari sono in Europa il principale fattore di rischio per malattie non trasmissibili come quelle cardiovascolari, l’obesità, il diabete e alcuni tumori. Stanti questi presupposti, tentare di porvi rimedio, mettendo i consumatori in condizione di mangiare sano, intendendo con ciò l'abitudine di alimentarsi in maniera equilibrata, pulita e salubre, sembra un obiettivo sensato e condivisibile. Ma mentre la Commissione continua a lavorare sulla proposta di un'etichetta nutrizionale semplificata da adottare in tutto il territorio dell'Unione e da esportare, governi nazionali, europarlamentari e associazioni varie cercano di influenzare la scelta. Ecco, pertanto, che, attorno al Nutriscore, sistema di etichettatura che, seppure non perfetta, meglio sembrava rispondere all’esigenza di chiarezza e semplicità, è in corso un braccio ferro fra favorevoli e contrari. A chi fa presente che il Nutriscore è “già stato adottato da sei Paesi dell’Unione Europea – Francia, Belgio, Germania, Paesi Bassi, Lussemburgo, Spagna e Portogallo – più la Svizzera (dove però un grande distributore come Migros e un produttore come Emmy hanno deciso di rinunciarvi)”, quindi, se lo hanno scelto ritengono che potrebbe avere dei benefici sulla salute dei cittadini, si ribatte che il Nutriscore non prende in considerazione la qualità globale del prodotto, non valuta la presenza di additivi nella lista degli ingredienti, non considera la porzione di consumo di un alimento. Inoltre, e questa è una constatazione alla portata di tutti, non tiene conto degli abbinamenti fra diversi alimenti, dei tempi e delle modalità di cottura. Esemplificando: io posso comprare del pesce fresco, a cui presumibilmente il Nutriscore attribuisce una A su un bel color verde intenso, e poi lo cuocio a lungo in un olio che non regge le alte temperature. Posso ancora dire che il piatto che porto in tavola sia sano ed equilibrato? Ciò che contribuisce a creare ulteriore disorientamento è che ciascuna parte porta a supporto innumerevoli studi ed evidenze scientifiche fra di loro contrastanti. A questo punto come ci regoliamo? Quando si tratta della salute non è sempre bene affidarsi alla saggezza degli antichi, che basavano le loro conclusioni sulla filosofia o su osservazioni sommarie e non disponevano di dati estesi e dettagliati e di un metodo scientifico per analizzarli. Lo svizzero Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim – che amava farsi chiamare Paracelso – era medico, ma anche astrologo e alchimista, due discipline che oggi definiremmo “antiscientifiche”. Eppure, il suo più celebre aforisma è in molti casi valido anche oggi, soprattutto nella traduzione semplificata a noi più familiare, la citatissima espressione: “è la dose che fa il veleno”. Suona tranquillizzante, come a dire che solo gli eccessi possono causarci danni. È una cosa che capiamo benissimo e su cui possiamo concordare. Tranne poi prontamente dividerci al momento di definire cosa s’intenda per eccesso. Ma questa è un’altra storia. *** Ps: Sulla vicenda del Nutriscore è stato organizzato un convegno a Berna di cui riferiamo a pag 28. Se ne occupa, con la riconosciuta competenza, anche la nutrizionista Tatiana Gaudimonte nella sua rubrica La dieta rivista (pag 72) Peccato, o forse no, che sia un peccato. Come quasi tutto quello che dà piacere, del resto. Nel caso specifico il riferimento è al peccato di gola. Che in realtà, al pari delle lussuria - al quale, come testimoniano la condivisione lessicale e di metafore che abbondano sia nella grammatica alimentare sia in quella sessuale, è spesso associato – è, come abbiamo imparato noi figli del boom, che ancora abbiamo vissuto l’esperienza domenicale dell’ora di catechismo, uno dei sette vizi capitali. Tradotto in soldoni: è la risposta ad un impulso, una mancanza di moderazione nell’assunzione di cibo o una voglia d’appagamento del corpo per mezzo di qualcosa che produce soddisfazione. Non ultima, quella atavica di emancipazione sociale. Se fino a un certo momento della storia dell’uomo erano le classi meno abbienti a soffrire la fame, e dunque la sovrabbondanza era associabile solo a chi poteva disporre di quantità così ingenti di cibo da poterlo sprecare, oggi la situazione è diversa. Senza neppure essere sfiorati dal paradosso, temo inconsapevole, contenuto in una delle celebri affermazioni del ministro Lollobrigida secondo il quale “in Italia spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi”, il consumo costante e capillare delle merci, non solo alimentari, poco importa se prodotte a basso costo e con scarsa qualità, ha fatto sì che anche il cibo diventasse l’emblema del benessere occidentale diffuso. Quella che gli esperti chiamano la democratizzazione dell’abbondanza, non sembra avere come diretta conseguenza un sussulto di coscienza di classe o una rinnovata consapevolezza della propria salute. Punta smaccatamente alla diffusione di una cultura del consumo immediato e perenne. Se prima erano i borghesi annoiati ad avvelenarsi nell’eccesso – in questa ottica la Grande Bouffe di Marco Ferreri riemerge profetica - oggi il culto del cibo viene celebrato talvolta secondo un rito anestetico che non ha mai raggiunto vette simili tra programmi televisivi a tema, serie televisive, mito dell’alta cucina e ristorazione che si espande a macchia d’olio. Eppure, secondo quella che con un termine ormai abusato siamo soliti definire narrazione, la salute viene prima di tutto.

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