La Rivista Grande Schermo Rapito di Marco Bellocchio Bologna, 1858. Edgardo Mortara, un bambino ebreo di quasi sette anni, viene sottratto alla sua famiglia e consegnato al "Papa Re" Pio IX. Il potere temporale del Papa sta vivendo gli ultimi bagliori (dodici anni dopo, nel 1870, arriveranno i bersaglieri attraverso la celebre breccia di Porta Pia) e il rapimento del piccolo Mortara si manifesta per quello che nei fatti è: un gesto politico. Tutto è motivato da un fatto (per noi) assurdo: quando Edgardo aveva sei mesi, una domestica cattolica lo aveva battezzato all’insaputa della famiglia, perché era ammalato e la donna temeva morisse fuori dalla grazia di Dio, condannato al limbo. La motivazione ufficiale, legittimata dal Diritto canonico, spiegava che il bambino tramite il battesimo era diventato cristiano, pertanto, non poteva che ricevere dalla Chiesa un'educazione cattolica che lo "liberasse dalle superstizioni di cui sono imbevuti gli ebrei". Di fronte a un simile dogma a nulla valsero gli appelli disperati del padre Salomone e della madre Marianna, che non si rassegnarono e continuarono a cercare di riavere il figlio, sollevando un caso internazionale, che vedrà schierati contro il Papa la comunità ebraica mondiale, la stampa liberale e persino Napoleone III. Pio IX però non fece alcun passo indietro: nonostante il declino del potere temporale della Chiesa e le critiche ricevute, alle richieste di restituire Edgardo alla sua famiglia rispose con un "non possum" e il sorriso serafico di chi si ritiene al sopra delle umane regole. Marco Bellocchio sceglie una storia che aveva già attratto l'interesse di Steven Spielberg e la realizza con una comprensione profonda del momento storico in cui si è svolta l'azione e della complessità dei rapporti fra Stato e Chiesa. La fonte letteraria cui si ispira la sceneggiatura del film - presentato in concorso al festival di Cannes - è Il caso Mortara di Daniele Scalise, e la perfetta ricostruzione di quel tempo è ricca di dettagli che ci calano in quel mondo controllato da un potere temporale ambiguo, in cui l'antisemitismo della Chiesa si manifesta con virulenza, tanto che il Papa arriverà a minacciare il capo della comunità romana di "costringere gli ebrei a tornare nel loro buco", risigillando la porta del Ghetto. La vicenda senz'altro meno nota del caso Moro, altro rapimento a cui Bellocchio ha dedicato due film ( Buongiorno notte ed Esterno notte), ha però il medesimo intento di raccontare l'Italia e le dinamiche di potere che la guidano. Se nei film su Moro la violenza irrazionale veniva dal terrorismo, in Rapito è la Chiesa Cattolica in quanto promotrice di dogmi a esserne il simbolo. E che cosa sia un dogma, ovvero un principio che si accoglie per vero o per giusto, senza esame critico o dis- cussione, lo fa dire Bellocchio al piccolo Edgardo durante i primi anni della sua educazione cattolica. Rapito è un film di una violenza non grafica ma efferata, tanto più grottesca e terribile perché perpetrata con quel senso di titolarità moralista che è al centro di ogni oppressione (non a caso il rapimento di Edgardo viene organizzato da un ex inquisitore) e sostenuta da una struttura di potere che nega o minimizza la gravità di ogni sua scelta con un "non è successo niente". La coercizione a cui il bambino viene sottoposto non è mai fisica, anzi il papa con lui è particolarmente affettuoso come un padre con un figliol prodigo, ma non per questo meno aberrante. Esiste una verità assoluta e tutto è ammesso in suo nome. Nel film non c’è tuttavia una presa di posizione contro la Chiesa di Roma, piuttosto una messa in scena della violenza operata in nome di una verità, qualunque essa sia. Bellocchio costruisce un'opera potente, sia per grandezza visiva, sia per analisi. Uno sguardo rigoroso il suo tra politica e religione senza cedimenti ma capace di raccontare una storia emblematica evitando la trappola della parabola. La Rivista · Dicembre 2023 81
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