La Rivista

La voce nascosta Alla ricerca dell’italianità perduta I n un paese storicamente quadrilingue come la Svizzera, la questione si pone perfino pas- sando da una regione linguistica all’altra, spesso superando solo pochi chilometri di distanza e sempre attra- versando frontiere solo immaginarie, ma non per questo irrilevanti. Non succede di frequente, però, che una biografia linguistica venga ricostruita e analizzata con dovizia di particolari e in tutte le implicazioni culturali, sociali e psicologiche che il caso comporta. Vi sono alcune testimonianze let- terarie, tra le quali spicca, illustre, La lingua salvata (titolo originale: Die gerettete Zunge ), autobiografia romanzata di Elias Canetti, premio Nobel, pubblicata nel 1977. In Sviz- zera possiamo citare Tra dove e non piove (1970/1972) di Anna Felder, che firma la prefazione del libro oggetto di queste righe. Un epistolario a tre voci Il libro che presento si basa su un epistolario a tre voci, arricchito da te- sti definiti come “Ricordi”, una sorta di monologhi interiori, illustrazioni e fotografie provenienti dall’album di famiglia; perché di una biografia lin- guistica famigliare si tratta. Le protagoniste di questo viaggio interiore alla ricerca – al recupero – della lingua italiana e dell’italianità sono Christina Le Kisdaroczi (figlia), Alessandra Vitali (docente di italia- no) e Graziella Zulauf-Huber (madre). Figlia e madre, in quest’ordine poi- ché l’iniziativa di voler recuperare la lingua italiana è partita dalla figlia, raccontano le rispettive storie di emigrazione e di decisioni sulla lingua da utilizzare prioritariamente, decisioni in vario modo imposte dalle circostanze. La scelta, per la verità sofferta, della madre di concentrare i propri sforzi sulla lingua tedesca e di educare i figli in questa lingua, rispecchia lo spirito del tempo: tra- sferitasi da Milano verso la Svizzera all’età di quattordici anni, dovette imparare il tedesco e lo svizzero tedesco mettendo in secondo piano l’italiano. La figlia, nata in Argovia da padre svizzero e madre diventata nel frattempo italo-svizzera, è cresciuta esclusivamente in tedesco e svizzero tedesco. Per scelta dei genitori (il padre era svizzero tedesco) l’italiano veniva usato in famiglia solo dai ge- nitori e quasi di nascosto, come se si volesse nascondere ai figli qualche segreto. Scrive Christina, che peraltro si firma “Cristina”: “ Il problema cardinale (sic) (…) era il mio “essere esclusa” dal tuo mondo italiano, che (…) emergeva di nuovo e in modo forte, inaspettato ”. (p. 37) Più in là nel libro si legge l’autocritica della madre: “ (…) mi hai portata indietro agli anni in cui mi ero lasciata convincere dalla teoria di allora che affermava che far crescere i figli bilingue (sic) sarebbe stato più tardi un intralcio per loro ” (p. 162). In effetti fino agli anni 1960 inol- trati prevaleva, anche tra linguisti e psicologi, e in totale assenza di evidenza scientifica, l’opinione che il bilinguismo precoce fosse non solo irrealizzabile, ma provocasse danni psichici, cognitivi e linguistici ai bambini, compromettendo così il loro iter scolastico e il loro futuro. Tale po- sizione, più vicina al pregiudizio che alla dignità di un’opinione fondata su fatti, è stata in seguito contraddetta grazie a ricerche psicolinguistiche e neurolinguistiche. La Rivista Sullo scaffale Che la questione della lingua, anzi delle lingue, sia un tema centrale nella vita di ogni persona che per un motivo o per l’altro lascia il proprio paese per andare a risiedere in un altro paese, è fuori discussione di Cristina Allemann-Ghionda* La Rivista · Marzo 2023 68

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