La Rivista

segnerà alcune ore di tedesco, fran- cese, inglese, matematica e cucina in una scuola secondaria di primo livello. Si tratta dunque di un talento multifunzionale, molto bene! Se io fossi il direttore della scuola che assume questo insegnante, co- munque, un paio di domande me le farei: quali sono i rapporti culturali di questa persona con le lingue che dovrà insegnare? È sufficiente saper leggere e scrivere, si spera senza troppi errori, in tedesco standard per conoscere bene la cosiddetta “lingua di Goethe”? Sono bastanti i voti, forse buoni, ottenuti durante la scuola dell’obbligo per trasmettere efficacemente la cosiddetta “lingua di Molière”? Sono adeguati i sei mesi passati in una fattoria australiana, un’esperienza segnalata nel curricu- lum, per renderlo idoneo a occuparsi in modo credibile della cosiddetta “lingua di Shakespeare”? Il riferimen- to a figure culturali importantissime per queste lingue non è casuale… Se questo signore non avesse partico- larità responsabilità didattiche come l’organizzazione e la valutazione del- le prove, allora il suo ruolo potrebbe anche essere accettato senza parti- colari problemi. Un po’ di inventiva e una certa dose di buona volontà dovrebbero essere sufficienti per far imparare, in qualche modo, agli alun- ni l’uso dell’accusativo in tedesco, la coniugazione del verbo to be in ingle- se e gli articoli in francese. È lecito accontentarsi? Ma può un sistema scolastico, così avanzato come quello elvetico, accontentarsi di questo tipo di com- petenze? A quanto pare sì. Una delle convinzioni più comuni nell’opinione pubblica è quella che, alla fine delle scuole dell’obbligo, è sufficiente saper leggere/scrivere testi non troppo impegnativi in qualche lingua nazionale o straniera e avere una certa dimestichezza con le basi della matematica. Il “resto” non conta e chi intraprende studi superiori, soprattutto di carattere umanistico, è visto con un certo scetticismo. Il termine “accademico”, in certi ambienti elvetici, è diventato ormai un insulto equivalente a “fan- nullone” o “buono a nulla”. Ecco, proprio l’eliminazione del “resto” sta impoverendo la funzione culturale che dovrebbe avere l’edu- cazione scolastica con ripercussioni non indifferenti nella preparazione generale degli insegnanti. Nel dibat- tito sulla mancanza degli insegnanti non ho letto nulla che riguarda la qualità della formazione dei docenti. Che cosa prevedono oggi i pro- grammi degli istituti di Pedagogia, oltre all’acquisizione delle tecniche didattiche più utili per l’insegna- mento? Proprio in queste istituzioni si è convinti che la cultura generale, fine a sé stessa e senza applicazioni pratiche in classe, sia un lusso su cui non bisogna investire troppo. Qualcuno mi ha detto che le risorse finanziare devono essere investite in altre priorità di tipo pratico e non teorico. E non mi piace affatto la ri- sposta che mi diede, qualche anno fa, il responsabile didattico di un istituto per giustificare questo punto di vista: “ Non è necessario che questi studenti sappiano troppe cose di Letteratura o Storia, è sufficiente che sappiano usare correttamente i manuali e sia- no in grado di fare correttamente le valutazioni ”. Io, invece, sono convinto che un professionista della didattica debba essere una persona colta in- dipendentemente dal livello in cui lavora, ma forse mi sbaglio. E poi, siamo sicuri che chi decide di intraprendere la professione di insegnante abbia l’attitudine giusta? Io credo che un buon insegnante La Rivista La lingua batte dove... Quanti anni abbiamo passato inutilmente a cercare di imparare, a memoria e senza entusiasmo, paroline di un manuale solo per far passare un’ora tranquilla al nostro insegnante? La Rivista · Settembre 2022 54

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