La Rivista
cantare ad alta voce canzoni con la rima cuore e amore, magari con un panino, un bicchiere di vino e l’auto- radio in mano in un pomeriggio trop- po azzurro. Le spiagge dell’Adriatico con il Casanova di turno. Don Camil- lo e Peppone! La Dolce Vita! I papa- razzi! I grandi marchi della moda! L’aperitivo in piazza! Lo spritz! Il pro- secco! Le automobili italiane! Lo so… è il risultato del successo del made in Italy nel mondo. Bene! Ma io potrei farne a meno, anche se ammetto che gli stereotipi mi hanno aiutato molto nel mio lavoro. E non parliamo poi delle battute, ormai stantie, su mafia, camorra e, in generale, sulla politica italiana! Non ho più nulla da dire su certi argomenti. Basta! Vorrei final- mente far capire che io rappresento solo me stesso e non 60 milioni di persone che parlano la mia stessa lingua e, diverse volte, non hanno le stesse mie idee. E se spostiamo l’attenzione sull’aspetto prettamente linguistico, beh, sono stufo di spie- gare le regole grammaticali, sapendo che i primi a non usarle sono spes- so gli italiani stessi. Potrei farti tanti esempi, ma lascio perdere. A me in- teressa, invece, far comprendere le cause di certe devianze linguistiche. Fenomeni di semplificazione, gene- ralizzazione o interferenza sono nor- mali prodotti dell’apprendimento di una lingua. Spesso, a lungo termine, la possono perfino modificare. Quan- do parlo di certe regole, voglio anche spiegare perché l’italiano è struttu- rato in un certo modo, possibilmente confrontando la mia lingua con quel- le degli altri. E quando parlo di les- sico, mi piace discutere delle origini delle parole che uso. Ecco… sono un linguista… italiano… professionista e per ora questo approccio “umanisti- co” verso le lingue ha avuto un certo successo. Per fortuna! Ma mi accorgo che iniziano a mancarmi le energie mentali per fare certe cose. E questo mi fa paura ». « Forse si tratta di semplice… vecchia- ia! », mi dice la mia interlocutrice con un sorriso dolce. « Forse è così… », aggiungo con una smorfia. Abbiamo finito di mangiare e ci sia- mo persi in una lunga e impegnati- va chiacchierata davanti a dei piatti sporchi di sugo. Un cameriere si av- vicina per prenderli. Ci chiede se vo- gliamo un dolce. Dall’accento e da un certo tipo di vocalismo capisco che è pugliese, probabilmente è originario di Bari e dintorni. Il suo intercala- re è autentico, non è come quello di Lino Banfi che, sulla sua “pugliesità”, ha costruito un’ottima carriera cine- matografica. E mentre il cameriere parla, mi risuonano le parole di mio nonno che, quando ero bambino, mi insegnava a fare gli strascinati per il ragù oppure le cartellate al miele . Il ristorante, purtroppo, non offre dolci pugliesi e allora decliniamo l’offerta. Il cameriere insiste e ci chiede se vogliamo un liquore… magari un li- moncello … offerto dal padrone. De- cidiamo di prendere due caffè . Il cameriere ci guarda un istante, ma si astiene di farci una domanda che in genere viene fatta nei ristoranti italiani della Svizzera tedesca: caffè creme o espresso ? Dopo pochi minu- ti, infatti, ci porta infatti due tazzine contenenti una piccola quantità di li- quido scuro e cremoso. Tra italiani di professione su certe cose ci capiamo senza problemi. Il caffè è buono. Pago il conto e usciamo. Fa molto freddo, ma veniamo ricompensati da un cielo notturno pieno di stelle. Camminiamo in silenzio. La breve vacanza in montagna sta per finire. Tra poche ore sarei ritornato anch’io a fare l’italiano di professione in un’aula. Nel frattempo, non troppo lontano da queste montagne, altri professionisti di altre lingue e nazionalità hanno deciso di fare una guerra. Ma questa è un’altra storia. Insegnare le lingue straniere agli altri devi avere anche delle doti naturali un po’ particolari che non apprendi certo con un diploma di didattica La Rivista · Marzo 2022 65
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