La Rivista

piegato a spiegarle e a comprenderle. E il tutto deve essere fatto in modo “simpatico” per non scontentare la clientela che vorrebbe imparare una lingua in modo semplice e veloce, senza troppi sforzi. Visto che parlia- mo di arte culinaria, ecco… la cultu- ra del fast-food da decenni è entrata nell’insegnamento delle lingue un po’ a tutti i livelli. Poco tempo per gli approfondimenti, tutto deve essere efficiente e misurabile ». « Sì, ma tu non fai il cameriere… », os- serva la commensale. « Anche l’insegnamento è un lavoro di servizio nei confronti gli altri. Io metto a disposizione le mie compe- tenze e devo farlo in modo convin- cente. Mi pagano proprio per fare questo. Ma mi accorgo che, alla fine delle mie lezioni, sono mentalmen- te sempre più stanco. Non voglio più parlare con nessuno. Non voglio ascoltare nessuno. Voglio starme- ne semplicemente per i fatti miei. In silenzio ». « Da un po’ l’avevo capito. Ma indub- biamente fai un lavoro che ancora ti piace e, con tutta l’esperienza che hai maturato negli anni, non devi pre- pararti nemmeno troppo. Sei in una posizione privilegiata rispetto a tanta gente che fa magari lavori meno sod- disfacenti del tuo ». « Oh, certo, è così. Però, credimi, per insegnare le lingue straniere agli al- tri devi avere anche delle doti natura- li un po’ particolari che non apprendi certo con un diploma di didattica. Pa- zienza, empatia, tolleranza, apertura mentale, flessibilità, rispetto e altre cose del genere le devi portare con te prima di pretendere di insegnare qualcosa in una classe, altrimenti rischi di essere un semplice tecnico delle lingue che si limita a fare appli- care le regole grammaticali previste dai manuali. Ma questi talenti innati rischiano di consumarsi con il tem- po. Non è facile conservarli intatti a lungo termine. E io non vorrei di- ventare alla fine un semplice tecnico delle lingue. Conosco, invece, diverse persone che si accontentano di fare questo e va benissimo anche così». «Credo che ogni bravo professioni- sta… quello che ha a che fare in qual- che modo con la gente… intendo dire quello che si impegna veramente nel proprio lavoro ascoltando le esigen- ze delle persone con cui ha che fare… nel nostro caso, per esempio, stu- denti o pazienti… si trovi un giorno di fronte a questo tipo di stanchez- za. Il segreto sta nel trovare sempre la volontà di continuare, nonostante tutto. Nonostante certi dubbi », dice la mia commensale che ha un’enor- me esperienza lavorativa nel settore sanitario. « Io non so se sono un bravo profes- sionista nel mio campo, ma so che ho avuto, in questi anni, la fortuna di poter trasmettere la mia lingua e una piccola porzione della cultura del mio Paese agli altri. Credo anche di possedere una preparazione di un certo livello, ottenuta attraverso i miei studi scolastici e universitari fatti in Italia e all’estero, alla quale si aggiunge una buona esperienza di vita tra mondi linguistici e culturali diversi. A differenza di tanti colle- ghi che insegnano, volenti o nolenti, una lingua e una cultura che non è la propria, non ho dovuto nemmeno fingere di essere italiano. Io sono un italiano… nonostante tutto… profes- sionista. È stato facile per me giocare la carta della mia italianità e credo di aver avuto anche un certo successo in questo ». « E allora qual è il tuo problema? ». « Il mio problema è che mi sto stan- cando di districarmi tra gli stereotipi sull’Italia. Gli italiani mangiano piz- za e spaghetti. Non fanno colazione o al massimo bevono un caffè. Amano Peppone e Don Camillo La Rivista La lingua batte dove... La Rivista · Marzo 2022 64

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