La Rivista
co-tedesche. Qualcuno fa anche bat- tute divertenti sotto gli occhi vigili di Totò, immortalato in una serie di grandi foto appese sui muri della sala da pranzo. Ci sono anche numerose riproduzioni della Vespa e dell’Ape, dei Trulli, della Cinquecento e tanto altro ancora. Tutto è fatto all’insegna dell’italianità da esportazione, un po’ chiassoso e “simpaticamente” disor- ganizzato. Dovrebbe corrispondere a quello che ci si aspetta dall’Italia, no? Io, invece, osservo tutto questo con un po’ di malinconia. Non si tratta della qualità del cibo che mangio, tutto sommato buono, ma dell’atmo- sfera generale in cui non riesco a identificarmi. Anche se sono italiano, nato e vissuto in parte nell’Italia set- tentrionale. Anche se i miei genitori sono di origine meridionale. « Non è facile fare l’italiano di profes- sione », dico sottovoce alla mia com- mensale, svizzero-tedesca, che, come me, non ama gli stereotipi linguistici e culturali. « Beh… i camerieri corrispondono per- fettamente a tutti gli stereotipi sugli italiani… meridionali… bassi, cicciot- telli, con i baffi folti, un po’ casinisti. Manca solo la grande mamma, con il sedere grosso, o il vecchio padri- no, con la voce roca, e la situazione sarebbe perfetta. E, come vedi, tutto questo sembra piacere ai clienti », mi fa notare la commensale con un tono canzonatorio. « Tu sai benissimo che questa è una forma di recita per il pubblico pa- gante che si aspetta certe cose dagli italiani. Una specie di Commedia dell’Arte fatta da… forse inconsa- pevoli… professionisti della risto- razione e della comunicazione. Ma recitare ogni giorno così può essere faticoso. Quando il ristorante chiude, la sera tardi, posso immaginarmi la stanchezza fisica e mentale di queste persone che lavorano nel ristorante. Essere sempre sul pezzo, cercando di soddisfare le esigenze dei clienti con sorrisi e battute, più o meno sponta- nee, è difficile. E poi decidere di sce- gliere la professione di italiano, a lun- go termine, può essere logorante ». « Italiano di professione! Non ho mai sentito una definizione di questo ge- nere. Esiste veramente una profes- sione che può essere collegata con una determinata nazionalità? », chie- de incuriosita la mia commensale. « È strano, lo so. Ma alcune volte cre- do che qualcuno scelga, più o meno inconsciamente, di giocare la carta della nazionalità, propria o adottata, per portare avanti al meglio la pro- pria professione. Chi insegna lingue straniere, per esempio, tende a farlo con una certa regolarità ». « E quali sono i parallelismi tra que- sti camerieri e te che insegni l’ita- liano agli altri? », mi chiede la donna interessata. « Io cerco di insegnare quello che so nel miglior modo possibile. Qualcuno mi considera perfino un “professioni- sta delle lingue” a causa di una serie di diplomi conseguiti negli anni. Ma non sono molto diverso da questi ca- merieri. Da tantissimi anni, per vive- re, “vendo” ai clienti che frequentano i miei corsi una serie di prodotti pre- confezionati da altri. I manuali che utilizzo sono un po’ come i menù dei ristoranti. Per esempio, tra gli anti- pasti ci sono il genere dei nomi e gli articoli. Tra i primi puoi trovare la coniugazione verbale. Tra i secondi ci sono gli aggettivi e magari. Infine, come dessert, elementi di sintassi attiva e passiva. Esistono anche pie- tanze più difficili da digerire, come, per esempio, la concordanza tra le frasi con il condizionale e quelle con il congiuntivo. Spesso sono anche le più costose in termini di tempo im- “(…) è che mi sto stancando di districarmi tra gli stereotipi sull’Italia” La Rivista · Marzo 2022 63
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