La Rivista

inesorabilmente negli occhi e nella mente di chi guarda le immagini della guerra che proprio in questi mesi è tornata a popolare di incubi le notti d’Europa. A sera, diradata la folla, la luce in- confondibile del tramonto veneto infonde una dolcezza particolare alle passeggiate fra ponti e calli. A San Vidal, appena prima del pon- te dell’Accademia, un musicista dall’ottima mano cava da un liuto barocco un ammaliante cascata di note rinascimentali. Lo troverò lì anche le sere seguenti, con i suoi cd in vendita e il cappello per le offerte. Incredibilmente quasi nessuno, fra i passanti, sembra accorgersi di lui e della sua musica. La giornata è stata faticosa. Evito una cena impegnativa e mi accon- tento di uno spuntino veloce da uno dei tanti indiani o cingalesi che sembrano avere il monopolio delle pizzerie d’asporto, rosticcerie e simi- li e che offrono una soluzione eco- nomica ai ragazzi affamati che scor- rono il menu contando i pochi soldi in tasca. Il mio kebabbaro , a due passi dall’hotel, ha un sorriso conta- gioso e una gentilezza disarmante. Facciamo due chiacchiere. Viene da Calcutta, ma ha una famiglia in Bangladesh; o forse il contrario, non ricordo. Mi accorgo che l’orario di chiusura è trascorso da un pezzo, e mi scuso, ma lui continua a sorride- re, e mi fa capire: che problema c’è? Partire con l’unico intento di tornare La mattina dopo faccio colazione al baretto davanti all’hotel. È cir- condato da trattorie turistiche ma i clienti sono tutti veneziani. Sembra che i gondolieri di San Zaccaria si diano appuntamento qui, la barista li chiama tutti “amore”. Qui si parla ve- neziano stretto; e sembra quasi che la cadenza sia tanto più accentuata quanto più la base dei “locali” si va restringendo. Anche i camerieri veneti, un tempo quasi un’istituzio- ne cittadina, cominciano ad essere l’eccezione, e lasciano il posto ai cingalesi. L’Oriente torna a far parte dell’identità veneziana, ma passan- do dalla porta di servizio. Non ci sono più i ricchi mercanti con tuni- ca e turbante che affollano la piazza nelle tele cinquecentesche di Gentile e Giovanni Bellini per la Scuola Grande di San Marco, oggi esposte alla Galleria dell’Accademia. Al loro posto, i turisti cinesi pronti a tirar fuori la carta Unionpay nei negozi del lusso, o nella scenografica corte del Fondaco dei Tedeschi, elegantis- sima mall in stile veneziano. Visitare Venezia durante la Bien- nale ti offre la possibilità di entrare liberamente in decine di residenze sparse per tutta la città, che si pre- stano ad ospitare mostre tempora- nee o i padiglioni di paesi che non ne hanno uno proprio ai Giardini o all’Arsenale. Ne approfitto, e per il resto del mio soggiorno mi lascio cullare dalla bellezza e dal caso. Secondo un noto luogo comune, a Venezia è bello perdersi. È proprio così. Personalmente, sogno da anni di ritrovare i sapori e gli accenti della Venezia popolare raccontata meravigliosamente da Silvio Sol- dini in uno dei miei film preferiti, Pane e tulipani . Anche questa volta non ce ne è stato il tempo: sarà per la prossima. Perché da Venezia, poco ma sicuro, non si riparte mai senza l’intenzione di tornarci. E di tornarci appena possibile. L’opera-simbolo della Biennale di quest’anno è la Brick House della statunitense Simone Leigh, Leone d’oro come migliore artista: una scultura bronzea di proporzioni monumentali che accoglie i visitatori all’entrata dell’Arsenale. Riproduce il busto di una donna la cui gonna ricorda una casa di argilla monumentale. Un omaggio e un contributo alla rivalutazione della cultura nera al femminile. La Rivista Il Belpaese

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